Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
13ª edizione - (2010)

Addio

Lui se ne andò, senza dirle niente, non una parola, non un sorriso, non uno sguardo. Niente.
Se ne stava andando, semplicemente.
Lei lo guardava e, come lui, non disse niente. Lo guardava, quello sì.
Riuscivano a rendere magico qualsiasi momento, quei due. Si fosse trattato di un addio, di un incontro, di una parola, di un silenzio, di un abbraccio loro sapevano come renderlo speciale.
Loro sapevano come fare.
A un certo punto, quando lei aveva abbassato il capo, sopraffatta dalla fatica, dallo sforzo di farcela e dalla voglia di piangere, lui tornò indietro.
Capitava di rado che tornasse sui suoi passi.
Ma questa era un'eccezione: in fondo non sapeva neanche lui perché se ne stava andando, se lo sentiva e basta, sentiva che doveva andare via. Magari per non combinare altri casini, per non far soffrire ancora qualcuno. Lui sapeva cosa si provava.
Anche se era proprio quello che stava facendo in quel momento. Cercò di non pensarci.
Lei si accorse che si stava avvicinando, ma non sollevò la testa, né gli occhi.
Gli disse solo: "Non farmi cadere".
Suonava più come una supplica che come un ordine e, in effetti, era proprio il tono che doveva assumere la sua voce. Non era abituata a dare ordini né a supplicare, ma adesso era diverso, adesso l'onore e l'orgoglio non significavano più niente, adesso lo doveva fare, era più forte di lei.
Lui non le rispose, non ne sentiva il bisogno, avrebbe capito. Lo sperava.
Certo che avrebbe capito, quello che non riusciva a capire era un'altra cosa.
Perché se ne stava andando? Perché ci stava mettendo così tanto? Perché non la finiva e basta? Perché non l'abbracciava? Perché non rimaneva con lei?
Non sapeva nemmeno lei cos'era meglio, cosa voleva: che se ne andasse, o che rimanesse.
Senza neanche accorgersene le scivolò una lacrima calda sulla guancia. Non l'asciugò. Non voleva che quel calore umido s'interrompesse. Voleva che le scendesse giù, per il collo. Per poi spegnersi da sola, così come era nata.
Lui alzò un dito, ma lo ritrasse un istante dopo, cosciente che quel gesto le avrebbe riaperto la ferita ancora sanguinante, che l'avrebbe fatta sprofondare nella voragine.
Quanto aveva odiato quello che, prima di lui, l'aveva fatta soffrire così tanto, così tanto da toglierle ogni felicità.
Era stata dura per lui insegnarle a vivere ancora, a non lasciarsi mai andare, a riuscire a voler bene a qualcuno. Ancora.
E ora odiava se stesso, le stava facendo lo stesso male. Se non di più. Le stava riaprendo la voragine, quel buco immenso al centro del suo petto, così scuro e denso, inquietante, ma così irresistibile, per lei, in quella situazione.
Sì, lui si odiava.
Non la toccò, solo riuscì a ristabilire un contatto visivo. Perché lo stava facendo? Già, perché?
Lei si costrinse a guardarlo, nonostante lo vedesse sfocato, privo di contorni, s'immaginò che fosse così perché aveva scelto di andare via.
Poi si rese conto che lo vedeva offuscato per via del velo lucido di lacrime che le inondava gli occhi. Peccato, sarebbe stata una buona scusa, quella.
Si guardarono per un momento, per una frazione di secondo, il concetto di tempo più breve che ci sia. Poi lui distolse lo sguardo, non sopportava vedere quella creatura così indifesa, così fragile ma così decisa, così terribilmente rara, piangere, soffrire, cadere nel vuoto per lui.
No, non ce la faceva. Codardo, mi odio.
Si girò e si trascinò verso la porta, aveva i piedi pesanti, ma decisi a imboccare la porta. Quella porta. Aperta.
"Almeno non farò cigolare la maniglia, almeno sarò silenzioso", pensava.
"Come. Un. Coltello." Riuscì a dirgli, scandendo bene le parole. Lui indugiò sulla porta. Sì, lo era, era un coltello, era tagliente. Ma sottile. Proprio come il suo modo di fare.
Senza dubbio non c'era paragone migliore.
No, ti prego no. Ma poi, cosa gli importava? Lui lo voleva. Voleva che quella lacrima gli scivolasse dall'occhio destro, color nocciola. La sentì sulle labbra e non poté fare a meno di pensare a lei. Quella lacrima gli stava ricordando di lei.
Era un pianto silenzioso, il suo. Lei lo era. Quando parlava, quando camminava, quando sorrideva, quando rideva. Gli piaceva essere silenzioso. ma in quel caso avrebbe preferito fare molto più rumore. Un rumore assordante. Singhiozzi, singulti. Ma no, niente di tutto ciò.
Pianse, e lo fece col cuore. Non erano i suoi occhi a piangere, non era lui. Era il suo cuore.
Lei lo sapeva, lo sentiva. Stava piangendo, sì, proprio come lei.
Fu a quel punto che lui scomparve dalla sua vista. Scese per le scale, di corsa, percorse di corsa tutta la strada che lo separava dal parco più lontano. E non si fermò mai. Voleva stancarsi. Voleva dire non ce la faccio più. Voleva sentire solo il suo cuore pulsare sotto quello sforzo. Voleva sentire le lacrime spazzate via dalla pioggia e dal vento. Voleva essere bagnato. Voleva sentire le sue gambe correre più veloce, da sole. Lui voleva tutto questo.
No, proprio non ce la faceva.
Era un dolore più forte di lui.
E a lei, a lei rimase solo il ricordo della sua schiena, delle sue spalle.
Come avrebbe potuto vivere ancora? Come avrebbe potuto essere felice di nuovo?
No, sarebbe stato impossibile. Lei lo sapeva.
E anche lui.
La sua schiena, le sue spalle.
Addio…


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010