Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
14ª edizione - (2011)

If…

Anno domini 1337. Leighton Buzzard, Inghilterra.
Catherine si coprì i lunghi capelli biondi con uno scialle nero e chinò la testa in segno di lutto. Ai suoi piedi, nel terreno umido, si apriva una buca dalle piccole dimensioni. Fece un lungo respiro e si chinò. Raccolse il corpo senza vita di sua nonna e, senza guardarle il volto, la scaraventò sul fondo della bara naturale che le aveva creato. Con foga sradicò la pala che aveva impiantato nel suolo ricoperto da foglie brinate e iniziò a riempire la buca. Le lacrime le bruciavano il volto e scendevano senza ritegno, mentre sfogava la sua rabbia verso il destino su quella maledetta fossa.
Devi essere forte, le aveva detto sua nonna poco prima di morire, ma non ci riusciva. Al mondo ora era rimasta sola, nessun parente, nessun amico. Sola contro tutti. I suoi genitori erano spirati poco dopo la sua nascita ed era stato solo grazie alle cure amorevoli della nonna che era cresciuta e diventata la donna che era ora. Le doveva tutto e non riusciva a sopportare l’idea che adesso lei non ci fosse più.
Tirò su col naso e deglutì. Ecco, pensò, ormai è fatta. Gettò un ultimo sguardo ai suoi piedi e rincasò. Gli inverni erano freddi, ma lei non li pativa. La capanna in cui viveva era diroccata, nessuna fonte di calore e troppe fonti di luce. Dietro aveva un piccolo giardinetto che ora avrebbe fatto da casa al corpo di sua nonna.
Si preparò un infuso e si sedette su una delle seggiole in legno dell’abitazione.
Chissà se ci rincontreremo mai. Sorrise tristemente reprimendo le lacrime, mentre ripensava alla loro ultima conversazione. Se solo non fosse stata l’ultima… Strinse con foga le dita intorno alla tazza fino a quando le nocche non sbiancarono, rendendola più pallida di quel che già era. Era una caratteristica di famiglia, le aveva detto sua nonna, quella della pelle cinerea che le rendeva ancora più chiare rispetto alle altre persone, e così anche quella degli occhi celesti.
Tirò un pugno sul tavolo e si alzò di colpo, facendo stridere la sedia mentre scivolava sul pavimento lercio. Doveva reagire, non c’era tempo per piangersi addosso. Prese la mantella nera e uscì nell’aria gelida. Il sole stava già calando dietro le colline imboschite, gettando la cittadina nell’oscurità. Catherine camminava lentamente, stretta nel suo mantello più che per il freddo, per nascondersi alla vista delle poche persone che coraggiosamente vagavano per strada a quell’ora, incuranti dei pericoli. Il crepuscolo era l’ora migliore per i briganti che approfittavano di quell’ora di mezzo per concludere il loro giro di crimini che iniziava nei boschi di giorno. Ma Catherine non aveva paura, ne aveva passate tante in vita sua che non la spaventavano certo dei contadini morti di fame che giocavano a fare i cattivi, anche se aveva potuto vedere fin dove si potevano spingere anche gli uomini più mansueti per la sopravvivenza. Da quel punto di vista, Catherine era felice di essere un po’ diversa.
Una pattuglia di soldati di re Edoardo III di Windsor irruppe nella strada maestra, costringendo la ragazza a fare un brusco cambiamento di rotta, in un vicolo tra due casupole. Si appiattì contro uno dei muri sudici e seguì con lo sguardo i cavalieri passare. Tirò un sospiro di sollievo e continuò la sua camminata.
Un grido proveniente da una finestra attirò la sua attenzione. Si voltò sorridendo: era finita la sua ricerca. Si spostò sul retro della casa e si guardò intorno circospetta. Il buio l’aiutava. Spiccò un balzo e afferrò una trave di legno che fuoriusciva dall’edificio. Aveva le gambe a penzoloni e muovendole si diede lo slancio per fare un ulteriore salto e aggrapparsi con la mano libera al muro. Continuò ad arrampicarsi a mani nude per pochi istanti. Si era talmente abituata a quel genere di cose che neanche sentiva più la fatica. I suoi muscoli si erano rafforzati e gli occhi si erano acuiti sempre di più, facendole notare fessure tra le assi dove inserire le mani per procedere: spiragli che sarebbero risultati invisibili a chiunque. Anche la notte, ormai, non presentava per lei nessun ostacolo, era solo un’alleata preziosa. Si appollaiò sul davanzale, appoggiandosi alla cornice della finestra per restare in equilibrio. Guardò all’interno della stanza e le si presentò una scena uguale a quella che aveva visto fin troppe volte. Così tante che ormai si era abituata e aveva smesso di commuoversi per essa da tempo.
Una donna stava moribonda nel letto, urlando di dolore per un qualche male interno.
- Chi siamo noi per decidere chi ha il diritto di vivere e chi no? Non possiamo commettere lo stesso errore degli uomini, stolti; non possiamo essere superbi quanto loro. Noi siamo superiori da questo punto di vista, ricordatelo, piccola mia. Per questo noi ci dobbiamo limitare soltanto a portare a compimento un Destino già segnato.
- Cioè? Cosa vuoi dire, nonna? Non capisco…
- Voglio dire i nostri obbiettivi non sono innocenti e brave persone, no. Sono coloro che soffrono per una morte ormai inevitabile; sono coloro che desiderano il suicidio, perché non si rendono conto del dono fatto loro e sono perciò indegni di vivere; sono coloro che vogliono sostituire Dio con il loro operato e pretendono di gestire le vite degli altri, ma non riesco neanche ad arbitrare le loro. Sono loro, i nostri obbiettivi.
Catherine chiuse gli occhi e fulminea si fiondò sulla donna. In un istante i canini le si allungarono e affondarono nel collo della malata. Quella non fece neanche in tempo ad accorgersi di quanto stava succedendo, che spirò sotto la presa forte della ragazza. Un sorriso liberatorio si dipinse sul suo volto, prima di abbandonare definitivamente le sofferenze della vita. Catherine si pulì la bocca con il dorso della mano e veloce come era venuta, se ne andò.
Una ragazza dai lunghi capelli corvini camminava nella notte. La luna era appena stata coperta da una nuvola livida di pioggia che aumentava il senso lugubre della scena. Catherine si chiese che luogo fosse. Era tutto così diverso dalla sua cittadina. Le strade erano dure e grigie, non un albero in vista e solo una strana luce illuminava a salti il terreno.
La mora girò la testa e si guardò alle spalle, poi aumentò il passo. Strinse con più forza la borsa a sé e accelerò, lanciando timorose occhiate alle spalle. Il suo bel volto chiaro era turbato, le sopracciglia accigliate e la bocca tesa. Catherine capì il motivo di tanta agitazione. Nella sua visuale comparve un uomo che partì di corsa e placcò la ragazza prima che questa potesse reagire. Non sentiva quello che stavano dicendo, però vide l’uomo girarla violentemente e sbatterla contro il muro di un ponte. Lo vide armeggiare con i pantaloni, mentre teneva ferma la mora con una delle grosse mani. La teneva bloccata per il collo. Catherine voleva urlare, voleva correre in suo aiuto e salvarla. Ma non aveva la più pallida idea di come fare. La visuale cambiò.
Era come se fosse lei al posto della ragazza mora, perché osservava la scena da una tale distanza che avrebbe potuto essere lei sotto le grinfie di quell’uomo. Lo vide distogliere lo sguardo dalla ragazza e piegare la testa per abbassarsi definitivamente i pantaloni.
La mora si dimenò e in un istante i suo canini brillarono, come colpiti da un raggio di luna, e si allungarono. Affondarono nella carne del maniaco. La ragazza lo afferrò per le spalle per non farlo cadere e spinse con più violenza i denti sul collo dell’uomo. Il sangue gli colava senza ritegno, imbevendogli il colletto della camicia ormai lacera. La mora lo lasciò cadere, solo quando lo sentì privo di vita sotto la sua presa. Si leccò con gusto la mano sporca del sangue dell’uomo, e come in estasi si pulì le labbra con la lingua. Gli occhi chiusi, stette immobile qualche istante. Li aprì di colpo e un ghigno perverso le si dipinse in volto. Raccolse la borsa, si guardò intorno e partì di corsa, mentre il suo corpo si rimpiccoliva sempre più, imbrunendosi, e dalla schiena le spuntavano due ali. Il pipistrello volò via nella notte, alla ricerca di altro sangue.
Catherine si svegliò di colpo, urlando come una forsennata e madida di sudore. Si guardò intorno e lentamente realizzò di trovarsi nel suo letto. Si alzò di colpo, si mise uno scialle intorno alle spalle e uscì. Aveva bisogno di aria per ragionare.
Era una notte limpida e le stelle brillavano come non mai sul velluto nero del cielo.
Camminava circospetta, guardinga, sobbalzando a ogni minimo rumore, anche prodotto da se stessa. Il timore di essere braccata le dilaniava il petto e non c’era niente che potesse farla calmare.
Si diede della stupida. Perché quel senso d’inquietudine? Perché pensava di essere seguita? Non era mai successo, perché proprio quella notte? Mille dubbi le affollavano la mente e sapeva che tutto era per pura suggestione: la mancanza di sua nonna la faceva sentire impotente e sempre allo scoperto. Si voltò nuovamente, terrorizzata; sorrise divertita dalla sua ingenuità vedendo comparire davanti a lei un piccolo scoiattolo. L’animaletto, alla vista della ragazza, fuggì spaventato. Perché faccio questo effetto persino agli animali? Non bastavano le persone… pensò sconsolata e decise di seguirlo. Correva con la testa rivolta verso l’alto, ringraziando i suoi occhi da gatta che l’aiutavano a seguire l’esserino anche nell’oscurità. I rami si spezzavano sotto il suo peso e ogni suo passo faceva cigolare il terreno composto da foglie gelate. Vide la coda dello scoiattolo sparire nella cavità di un tronco e si bloccò rattristata. Un soffio di vento le scompigliò i capelli, facendole distogliere lo sguardo dall’albero. Si guardò intorno per capire dove fosse finita. Quel posto non le diceva nulla… Era un bosco come ce n’erano tanti e nessuna caratteristica particolare le riportava alla mente un luogo conosciuto. Riprese a vagare alla cieca in quel labirinto di alberi finché una piccola radura non catturò la sua attenzione. Il prato brillava alla luce lunare e nel bel mezzo vi era un pozzo. si avvicinò a esso, si appoggiò al suo bordo pietroso e guardò giù. Nell’acqua nera si rifletteva la luna. La luna e nient’altro. Catherine sospirò amareggiata. Perché non poteva essere come tutti gli altri? Se fosse stata una normale ventiduenne, adesso nell’acqua avrebbe visto il suo volto pallido, i suoi lunghi boccoli biondi e i grandi occhi color del mare. Invece, i raggi le passavano attraverso e s’infrangevano sulla superficie scura come se lei non fosse nemmeno lì. Chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro. Respirò profondamente, cercando di trattenere le lacrime. Una folata di vento le accarezzò il viso e lei si crogiolò in quel contatto. Si tolse i sandali e lasciò che i piedi aderissero sul terreno. Sentiva l’erba umida solleticarle la pianta e ne godeva. Una lacrima silenziosa le attraversò il viso senza che neanche se ne accorgesse. Aprì gli occhi e la seguì con lo sguardo, fino a quando questa non cadde, quasi al rallentatore, sul suo piede destro. Riportò lo sguardo sul fondo del pozzo e qualcosa catturò la sua attenzione. Strizzò gli occhi e rimpicciolì la visuale per mettere a fuoco quel che stava vedendo e a cui non poteva credere. Qualcuno era nell’acqua. Non era lei, ne era certa. Però sapeva di conoscere quella sagoma. Di colpo si ricordò dove l’aveva vista. Lanciò un grido, mentre si allontanava tremante. La ragazza del sogno…
Si gettò di nuovo sul bordo, per assicurarsi che non si fosse trattato di una visione. Niente.
- Venite, è di qua! - La voce possente di un uomo, alle sue spalle, la fece voltare. Sbiancò quando vide tra gli alberi delle piccole fiammelle muoversi. Erano arrivati. Erano lì per lei. Il sudore le imperlava la fronte e sentiva che i muscoli le tremavano, mentre stringeva sempre più forte le pietre del pozzo.
- Un mondo dove tutti accettano la nostra natura? È pura utopia, mia cara.
- Nonna, cosa vuol dire utopia?
- Vuol dire che una cosa è impossibile da realizzarsi. Perciò, piccola mia, tu devi sempre essere pronta a nasconderti e a scappare. È questo il nostro destino.
Al ricordo degli insegnamenti della nonna, scattò in avanti, senza preoccuparsi di rimettersi le scarpe o del fatto che potessero sentirla. Ormai sapevano che lei era in quella radura ed era inutile il tentativo di passare inosservata. Si trovava al centro del nulla e, inevitabilmente, le ricerche sarebbero finite ai lati del pozzo. Si gettò nel folto della vegetazione, sperando di confondere gli inseguitori e che non riuscissero a prenderla. Come non detto… pensò a denti stretti, mentre sentiva urla indicare la sua posizione e ordinare che fosse catturata. Oltrepassò un albero e un altro e un altro ancora, ma sembravano non finire mai e la rallentavano immensamente. Non sapeva chi fossero i suoi inseguitori, ma, soprattutto, non sapeva quanti e dove fossero.
Si voltò e tirò un sospiro di sollievo nel vedere che le fiammelle erano più lontane. Tornò a guardare dritto davanti a sé, appena in tempo per notare un ramo che le si piazzava all’altezza della testa. Senza scomporsi lo afferrò saldamente e approfittò della foga della corsa per darsi slancio e salire su di esso con una rotazione. Si issò senza fatica e riprese la sua scalata, fino ai rami più alti, oltre i quali non poteva andare perché non avrebbero retto al suo peso. Si sedette su uno di quelli e inspirò profondamente, riprendendo fiato da quella corsa disperata. E altre domande presero a invaderle la testa. Ma era felice, felice di averla scampata.
- Ehi, dolcezza…
Sussultò e trattenne il respiro. Guardò in basso e vide un cavaliere aggirarsi nei pressi della pianta su cui si era rifugiata.
- Dài, vieni fuori… - ripeteva mellifluamente con un ghigno stampato in volto, reso ancora più sinistro dalla traballante luce della torcia. Catherine sentì una violenta scossa smuovere l’albero. Che succede? Un’altra, un’altra e un’altra ancora. La ragazza si guardò intorno, cercando una via di fuga, un ramo abbastanza vicino su cui poter saltare.
- Tana per la vampira! - La testa di un uomo entrò nel suo campo visivo. Catherine urlò, sbilanciandosi all’indietro. Troppo. Cadde giù, senza che i rami opponessero troppa resistenza. I dolori alla schiena per ogni colpo che riceveva la facevano urlare, sempre più forte. Fin quando si fermò. La testa le pulsava, niente sembrava avere più senso. Sentiva freddo. Strano…
Poi, buio.
Uno scricchiolio leggero, un suono quasi impercettibile. Uno scoppiettio, forse un po’ più forte. Delle urla: decisamente più forti.
Catherine spalancò gli occhi. I sensi tornarono vigili e in un istante riprese il controllo del suo corpo.
Lo scenario che le si presentò davanti fece saltare al suo cuore un battito. Gente, gente ovunque. Urli, grida, invocazioni, accuse… tutto mischiato in un vociare confuso dall’intensità di uragano.
Tutti i volti erano rivolti verso di lei, la fissavano sprezzanti: alcuni ridevano sguaiatamente, altri sghignazzavano con il compagno in maniera più composta, altri erano in silenzio, ma un silenzio che valeva più di mille parole perché tutto il pensiero si rifletteva nello sguardo colmo d’odio e stizza.
Fece uno scatto in avanti: doveva andarsene da lì. E fu allora che, con orrore, si accorse della situazione completa. Le mani erano legate tra di loro dietro la schiena, intorno a un palo a cui erano fissati anche i piedi con delle corde. Non indossava più i suoi vestiti, ma una tunica nera. Si trovava al centro di una pira.
Come in trance si ricordò di quello che era successo da qualche ora a quella parte. I soldati che la portavano via dal bosco; che ridevano di lei, mentre la trascinavano a terra e le sputavano addosso; poi quella stanza: mani ovunque, a violarle anche le più segrete intimità, mani brutali, tutt’altro che delicate; schiaffi, morsi, calci; strani congegni; molti ordini a cui era stata costretta a obbedire. E quel freddo pungente, che le penetrava fin nelle ossa.
Qualcuno le si portò alle spalle, sicuramente era uno dei soldati che l’aveva maltrattata e aveva approfittato di lei. Le sussurrò in un orecchio: - Non sei stata molto furba… Era da tempo che ti tenevamo d’occhio e proprio ieri sei venuta allo scoperto.
La sua voce era calda e calma, niente a che vedere con quella di un aguzzino, ma a Catherine metteva i brividi lo stesso. - Peccato, - continuò - ci saremmo divertiti con te: eri brava! - Scoppiò in una risata rauca, prima di rivolgersi alla folla acclamante, evocando il rogo per la vampira di Leighton Buzzard.
Altre urla di giubilo s’innalzarono al cielo, mentre la mano del soldato calava e con un gesto fulmineo dava fuoco alla pira.
Catherine urlò, le lacrime le imbevevano la veste. No, non poteva morire, non poteva finire così, non il giorno dopo sua nonna. Si bloccò di colpo.
Lentamente, dal profondo, le sgorgò una risata acida. Rideva, rideva e guardava la gente. Credevano davvero di farle un torto?
- Io vivrò! - gridò alla folla. Si sarebbe ricongiunta a sua nonna. La folla urlò di più, ma lei non se ne curò.
- Io vivrò… vivrò, vivrò, vivrò… e ancora, mille e mille volte, lo sussurrò, fin quando anche l’ultimo respiro non venne inghiottito da quel fuoco di morte.
NO! Alice si svegliò si soprassalto. Si toccò il volto, il collo, il busto, l’intero corpo come per assicurarsi di essere ancora tutta interna e di trovarsi ancora nel letto di casa sua. Gettò uno sguardo alla sveglia: 6:35.
Si strofinò gli occhi arrossati dalla lunga notte insonne e sospirò. È stato solo un incubo…
Questa consapevolezza, però, non l’aiutava a calmare il suo cuore che non accennava a voler diminuire i battiti e a tornare normale. Strizzò gli occhi un paio di volte e si mise a sedere con una mano tra i lunghi capelli corvini. Cercava di fare ordine nei suoi pensieri, ma era tutto talmente confuso. Ho mangiato troppo…
Scosse la testa. Tutta colpa di quel maiale! pensò con rabbia. E in un istante rivisse l’avventura di poche ore prima: vide nuovamente l’uomo che la bloccava sotto a quel ponte, alla flebile luce dei lampioni, e cercava di approfittare di lei che riusciva a salvarsi, e l’incontenibile voglia di sangue che si era poi impossessata di lei. Aveva girato l’intera città e mietuto vittime a una velocità assurda, senza lasciar loro possibilità di fuga. Anche quando ormai era satolla, continuava implacabile a nutrirsi del sangue e aveva dovuto andare nel suo solito posto per calmare quel desiderio irrefrenabile. Era consapevole del fatto che non poteva uccidere quando le pareva e piaceva, solo per suo gusto personale. Era andata un poco fuori dalla città, in quel boschetto che le piaceva tanto, nella sua radura. Era in quel luogo che riusciva a ragionare e calmare i suoi istinti animali. C’era un pozzo, al quale le piaceva appoggiarsi per pensare. E sperava sempre, guardando giù, di vedere la sua immagine riflessa nell’acqua. Non accadeva mai, sembrava che la maledizione che si portava addosso non potesse essere spezzata. Quella notte, però, era successo qualcosa di diverso. Non aveva visto se stessa, ma qualcuno in fondo a quel pozzo. Aveva lunghi capelli biondi e occhi azzurri come il mare d’inverno. Aveva creduto a un’allucinazione, infatti quando poi si era sporta nuovamente non c’era più niente. Però quel viso le ricordava molto la ragazza del sogno, quella che era stata messa al rogo con l’accusa di essere un vampiro. Scacciò quell’angoscioso senso d’inquietudine con una scrollata di capo, decisa più che mai a dimenticarsi dell’accaduto. Si alzò e andò a prepararsi una tisana.
- Sai, bambina mia, solo il corpo è mortale. Anche se noi ci spegniamo, la nostra anima continua a vivere e vaga nei secoli, fin quando non trova un altro corpo degno in cui stabilirsi.
- Quindi, nonna, noi potremmo rincontrarci quando sarò più grande?
- Certo, perché no?
Anno domini
2010. Milano, Italia.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010