Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
14ª edizione - (2011)

Lettere nel carcere

Non so da quanto tempo fossi là dentro.
Se la dissidenza da un governo non fosse considerata un crimine, non saprei neanche perché mi ci avessero rinchiuso, ma non è così; tutto quello che mi ricordo sono le torce che mi puntarono negli occhi, svegliandomi di soprassalto, e le mie urla angosciate, soffocate nella notte indifferente.
Mi ritrovai scaraventato tra quelle quattro mura che si stendevano alte e anguste dal pavimento al soffitto, in un grigio spelacchiato dall’umidità. Né finestre né luci, solo tonnellate di nudo cemento che mi squadravano digrignanti, senza posa, strizzandomi in quei due metri quadrati scarsi. I lati della minuscola porta tracciavano un paio di fiochi fili di luce, i soli a ribellarsi all’oscurità regina, che rosicchiava adagio quel poco di vita che mi era rimasto.
Non sarei ancora durato a lungo, ne ero certo.
L’unica cosa che intaccasse quella strenua immobilità erano le rare scorribande di un topo affamato che veniva a mangiare ciò che ogni tanto gli lasciavo: qualche briciola di pane o, se gli andava di lusso, dei pezzetti di crosta di formaggio.
Me ne stavo rannicchiato, fremente, a subire quell’inerte tortura quando, tutto a un tratto, di fianco a me, il topo cominciò a squittire disperato: tastai la cruda parete da cui proveniva il rumore finché sentii il suo pelo sudaticcio accarezzare convulsamente la punta delle dita. Era rimasto incastrato nella tana. Tirandolo fuori, udii qualcosa cadere sulla polvere con un fruscio. Appoggiai il mio amico esagitato quindi raccolsi l’oggetto sconosciuto e lo portai sotto un esile raggio di luce. Mi ritrovai in mano una consunta striscia di carta igienica appallottolata alla meno peggio e ricoperta, quasi senza che si intravedessero spazi bianchi, da una calligrafia ansiosamente ristretta. I miei occhi corrosi dal buio vi s’incollarono, come se emanasse una potente luce guaritrice.
Incominciai a leggere:

2015, non so dire il giorno.
Ciao, mi chiamo Valerie, so di non poterti convincere che questo non sia uno dei loro trucchi, ma se stai leggendo e se sei nella stessa gabbia in cui sono io, non ti resta che fidarti. Non credo di avere ancora molto tempo prima che il sì o il no di un uomo senza nome decidano della mia vita, perciò ho scelto di affidarla a te attraverso questa autobiografia di carta igienica. Sono nata nel 1993, a sud di Milano da una coppia di immigrati. L’unica cosa che ricordo della mia infanzia sono i continui spostamenti: dormivamo in un posto sempre diverso, ma di tutti, tutti, mi ricordo la polvere. Un giorno chiesi a papà perché non vivessimo nel nostro Paese; lui mi rispose che in Italia cercavamo una vita migliore. Non capii. Quando crebbi, incominciai a frequentare una scuola di periferia e la mamma diceva: - Devi studiare, con un po’ di fortuna farai una vita diversa -. Io l’ascoltavo. Il papà aveva cominciato a bere. La gente mi lanciava occhiate sospettose, alcune iniettate d’odio. Io rispondevo guardandoli negli occhi, dall’alto della mia corazza di dignità. La dignità e la paura erano tutto ciò che avevo. Mio padre intanto era diventato un alcolizzato; morì con la bottiglia di vodka in mano, mentre mi guardava con un barlume di speranza negli occhi e la faccia incrostata dal sudore e dalla polvere in cui aveva vissuto per tutto quel tempo. Avevo diciassette anni. Andai a lavorare in una fabbrica, era l’unico posto dove mi presero. Mi licenziarono qualche mese dopo perché non riuscivo a reggere i ritmi disumani, ma poco importa; là infatti conobbi un ragazzo. Ci innamorammo: furono gli anni più belli della mia vita, ma più passava il tempo meno gli italiani e il governo sopportavano noi immigrati. La sola cosa che ci accomunava era la diversità; la diversità che presto divenne il loro terrore. Non cercarono di risolvere il problema, ma di eliminarlo: molti dei miei amici cominciarono a sparire nel nulla. Passò poco tempo prima che arrivassero a noi due. Ci separarono senza nemmeno lasciarci dire addio. Piangendo tutte le mie lacrime finii in questo posto, lui in uno simile, credo. Ancora non capisco che cos’ho fatto per meritarmi tutto ciò ma spero, come ultimo desiderio, uno dei pochi espressi lungo il breve arco della mia esistenza, che tu capisca cosa intendo quando dico che sono ancora viva per questa lettera e, anche se non ti conosco e non ti conoscerò, per te che la stai leggendo. Dal più profondo del cuore, grazie. Ricorda che nessuno può meritarsi questo posto: tu e io infatti abbiamo un frammento di dignità che non potranno mai toglierci. In questo frammento noi sopravviviamo, loro muoiono.
Addio, Valerie.

Pesanti le lacrime fuoriuscivano dai miei occhi tanto che l’inchiostro delle ultime righe era diventato quasi illeggibile, quando sentii la porticina aprirsi e una voce comandare: - Vieni!
Infilai l’autobiografia come potevo nello straccio di tela che avevo intorno ai fianchi e mi diressi gattonando verso la porta. Un bagliore di luce m’investì, accecandomi. In quel momento mi resi conto che anche se mi avessero ucciso, non avrei avuto paura: vivevo attraverso Valerie, e lei attraverso me.
Uscii dalla porta ancora abbagliato e annusai l’aria, spavaldo.
- Seguimi - mi disse con voce incolore.
- Non c’è problema - risposi alzando la testa, indifferente riguardo alla mia sorte.
Sarei comunque stato libero.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010