Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
15ª edizione - (2012)

Empereur des ordures
di Sara Ronzoni
Terzo premio

Calais, 17 Agosto 1802

Non ricordo quando ricevetti la Vostra nuova. Forse la posta è sbarcata qui dall’Inghilterra una settimana fa, o forse ieri. Rammentare tempi così vicini a questi giorni m’è difficile, più difficile che solcare le onde con la prima nave che partirà per Dover.
Questo non toglie il fatto che Voi mi siate caro; il Vostro incedere celere, nelle missive, mi regala qualche momento di dolce nostalgia della mia giovinezza. Il sole francese che non rivedrò mai più culla ogni giorno i miei pensieri stralunati, e io, la piccioletta barca, mi sento affogare in questa malinconia che mi nutre dall’interno.
La mia giovinezza parigina non ha nulla a che vedere con la vita che ora ho scelto di condurre. Intendo, in piena e completa solitudine. Voi mi scrivete ch’io debba trovar marito. E io Vi replico dicendo ch’io son già sposata col mio cuore: è lui il mio vero uomo. Le donne non hanno necessariamente bisogno di amanti, che siano stabili, o mediocri o eccellenti; io sono amante di me stessa e della mia stessa anima, ma ancora non mi amo, né mi amerò mai.
Il tempo trascorso a Parigi durante la mia gioventù rimane il mio peggiore incubo e il mio più bel sogno. Se chiudo gli occhi, ora, mi par di provare nelle narici quel fetore che investiva i palazzi affacciati sulla Senna, il sudore rappreso nelle vesti dei giocolieri di Montmartre e l’acre olezzo dell’impasto di albumi e tuorli che aleggiava attorno ai pittori ambulanti di Rue de la Montfort.

Anno del Signore 1770. 12 Maggio. Sera. Rue de la Montfort. Civico 2. Parigi.

Fu quello il momento in cui la mia pelle candida come perle trovò la luce in questo mondo meraviglioso, ma abitato da popoli infausti e miscredenti nella vita. Come tutti coloro che si trovano sulla terra, non ho alcun ricordo di quei momenti; in queste situazioni è sempre stata l’immaginazione a venirmi in aiuto, tentando di plasmare la mia mente per dar forma a un vaso di memorie fiorite. Il primo, vero ricordo che ho di me stessa è l’immagine di due gambette sguscianti entro viuzze sozze e maleodoranti, due gambette ricoperte soltanto da una veste color porpora con l’orlo infangato da chissà cosa.
Io sono sempre fuggita, sempre. E ho sempre cercato qualcosa che potesse almeno completare quel mosaico del mio cuore, quella vetrata gotica dalle sagome di ferro battuto da cui la luce sarebbe oltrepassata, creando magici giochi di colore nella navata del mio spirito.
Voi siete pericoloso, e non V’immaginate quanto. Nel mio intimo nascondo un desiderio di riscatto cui tenterò di donare soddisfazione, un giorno o l’altro, nella terra dei Lords inglesi.
Nacqui in una famiglia accecata dalla sfortuna e dalla più crudele ingiustizia, figlia di un modesto pittore e di una cucitrice troppo remissiva verso le violenze del marito. Nei primi anni della mia vita potevo contare sull’appoggio di mio fratello maggiore. Era una bell’intesa la nostra, poiché ci permetteva di sopravvivere rubando stracci e viveri al mercato del sabato mattina in Place de la Liberté.
La libertà. La libertà era ciò che mio fratello e io nascondevamo nel nostro animo giovanile e non ancora soppresso dal succedersi degli eventi che avrebbero determinato la nostra esistenza. Mio fratello, inutile celarlo, era dotato di uno straordinario acume che gli permetteva di sopravvivere in qualsiasi situazione; con la presunzione del senno di poi posso ben affermare che non si trattasse di vero e proprio acume, bensì di astuzia toccata da un soffio di negligenza. Noi lo chiamavamo Ulisse, ero stata io a donargli quel curioso soprannome. E come Ulisse morì, a vent’anni, scavalcando col proprio intelletto la sua naturale finitezza umana. Non Vi spiegherò il motivo della sua morte e condanna, e non lo svelerò a nessuno. La morte di mio fratello fece vacillare pure il mio castelletto costruito su fondamenta ch’io pensavo solide, grazie al suo appoggio. Caddi in un tormentoso sonno, eterno, infinito, a tal punto ch’io più volte desiderai la mia stessa morte. E ogni volta ch’io cercavo di porre fine alla mia esistenza, l’anima di mio fratello e la sua voce frastornata ricacciavano indietro nel peccato originale ogni mio tentativo fallito di suicidio.
Non allarmateVi; e non tentate di nasconderVi. L’uomo è nato per raggiungere l’infinito e varcare le soglie della sua esistenza. Tutti sentono il desiderio del suicidio, prima o poi. Io lo sentii a sedici anni.
Mia madre m’incoraggiò a intraprendere la strada verso il Convento, e volle così trasformarmi in una monaca di clausura, di modo ch’io non potessi rappresentare un peso per la famiglia. E così fu; m’iscrissero al convento del quartiere, nonostante la mia mancata voglia di gettarmi in una vita religiosa che non m’avrebbe mai giovato. Le pazzie commesse furono tuttavia ripagate con l’espulsione e col crepacuore di mia madre, morta l’indomani del mio ritorno a casa. Non vidi mia madre morire, non ricordo neanche la sua voce triste e pesante degli ultimi anni. La mia unica famiglia restò mio padre, ma quell’unità che sarebbe dovuta crearsi non mi piaceva e cercai di bruciarla scappando dal quartiere. Da quel giorno in poi non indossai più abiti femminili e civettuoli cari alle dame del secolo scorso; con gli abiti da uomo sentivo la mia libertà riscattarsi a fior di pelle e, dopo aver trovato rifugio presso un pittore poco illustre, cominciai a scrivere. Imbrattavo carta d’ogni tipo, giorno e notte. Ricordo ancora l’aria cristallina in cui io scrivevo, e che all’alba si respirava sul Ponte Vecchio, quando la città sonnecchiava e non mostrava ancora la putrida miseria che aveva circondato anche me.
Dovete scusarmi, questa mia è zeppa di errori, priva di alcuna logica e fitta di nozioni insignificanti. Sto scrivendo come facevo allora, e come sempre farò. Con la penna che vomita i miei pensieri sulla carta affranta; e questa che piange, lacrimando inchiostro sotto il passo incalzante dei miei polsi.
Chiedo perdono, ho sbagliato. Quella che sta piangendo sono io.
Correva l’Anno di Grazia 1788 quando mi convinsi a portare alle stampe le mie opere. Si trattava di dialoghi con me stessa, racconti di persone cui avevo dato vita nella mia mente e storie di ingiustizie e perversioni che animavano la città ormai fremente; di questa raccolta facevano parte anche le mie traduzioni degli antichi filosofi, Platone soprattutto. M’ero data a una lettura fremente e, spulciando qualche libro di greco antico dalle mensole del mio povero protettore, acquisii anche la conoscenza di questa lingua che reputavo sempre più affascinante, a differenza del melenso francese che mi nauseava le orecchie. Ovviamente, tutto questo venne pubblicato sotto falso nome, perlomeno inizialmente. Joseph Hauptmann, filosofo e poeta di origini tedesche, divenne lo scrittore più amato nei salotti borghesi e il fetente più maledetto nelle riserve nobiliari. Fui dunque richiesta agli incontri di certi Marat e Robespierre, nomi avvolti dalla sete di libertà e di giustizia che aleggiavano sin troppo spesso sulle labbra dei parigini.
Il mio primo apparire in quegli ambienti si svolse nel Marzo 1789 presso l’abitazione di Marat. Fui accolta con entusiasmo, e la mia incertezza, tuttavia, svanì nell’osservare che a quegli incontri non vi partecipava alcuna donna. Dopo i tanti lusinghieri complimenti circa le mie traduzioni di Platone e i miei scritti che inneggiavano alla libertà e alla giustizia dell’Uomo, provai un senso di irrequietezza crescente punto da una rabbia interna che mi divorava; m’accorsi che pure quel mondo che cercava di riportare l’uguaglianza, sradicata dall’Ancien Régime, era completamente fasullo come il mio travestimento. Mi convinsi che mi sarei dovuta presentare a tali incontri col mio vero aspetto. Senza parrucche, senza marsine, senza tabacchiere. Avrei dovuto presentare i miei scritti e il mio volto e questo sarebbe bastato.
Mi recai immediatamente dalla mia stamperia di fiducia e annullai ogni ordinazione riguardante le pubblicazioni. Le modificai. V’incisi io stessa il mio vero nome: Josephine Hauptmann.
La donna, la scrittrice, l’artista nata nella miseria e che era sopravvissuta abbeverandosi alla fonte dell’inchiostro.
Passarono soltanto tre giorni rigonfi di mia attesa prima che venni di nuovo richiamata presso l’abitazione di Marat, allora al civico 79 di Boulevard Jommelli. Il sole limpido e casto che aveva guidato i miei passi durante il primo tragitto verso quell’abitazione mi aveva abbandonato; il mio cammino era ora accompagnato da una fitta pioggia di gocce sottili, penetranti come aghi da cucito. Ricordo d’aver indossato solamente un tabarro piuttosto scuro che s’intonava con un tricorno dai bordi dorati sui quali campeggiava una coccarda tricolore, simbolo della Francia nascente. Nascosta dal tabarro, la mia veste chiara, simile a un peplo greco, dava risalto e armonia alla mia carnagione e alla mia chioma bruna, lunga e mossa, raccolta entro un elegante fiocco che mi ricadeva dolcemente sulle spalle.
Non ricordo quanti passi mossero i miei piedi prima ch’io giungessi all’alta inferriata che segnalava l’inizio della proprietà di Marat. Rammento soltanto l’istante in cui venni ricevuta nella sala degli ospiti, ossia quel luogo dove i signori borghesi più in vista della città avrebbero dato prova delle loro idee rivoluzionarie mediante l’elaborazione di un’enciclopedia destinata a divenire uno dei patrimoni dell’umanità. Avvolti dai rintocchi dell’orologio della sala, i miei passi distendevano il mio molle incedere sul pavimento dell’ingresso. Fu quel punto quel che mi vinse.
«Mademoiselle Hauptmann. Venite, prego.»
L’avevo riconosciuto. La voce di quel Marat risuonò nell’aria fattasi stantia per i tanti sospiri dei presenti di cui sentivo ogni sguardo gravare sulle mie esili spalle bianche. Egli aveva dunque decantato il mio nome, il nome del corpo che mi possedeva e dell’anima femminile che mi stava ribaltando verso il suolo. Con le mie movenze che trasudavano intelligenza feci il mio ingresso nella sala, e lì rimasi immobile, muta come lo ero sempre stata.
Fu lui a proseguire: «Col permesso dei presenti, gradirei che Voi mi citaste qualche passo di Saffo, la Vostra poetessa favorita. So che Voi scrivete. E so che Voi siete donna, donna della peggior specie. Possedete acume, alterigia e superstizione, e ammetto che siete baciata da un non comune talento maschile nell’arte del travestimento».
Non credo esista in questo mondo altra cosa più sconcertante e, allo stesso tempo, più intrigante di una provocazione. A queste infauste parole, pronunciate da quell’uomo piuttosto basso, dallo sguardo vacuo e insignificante, rispose il mio solenne sguardo: dopo aver innalzato le palpebre, diressi il mio viso in direzione delle labbra che avevano pronunciato la mia ormai confermata condanna di adulterio verso quelli che erano considerati gli obblighi femminili del tempo. Il mio volto, su cui campava un curioso sorriso di compiacimento, si fece di nuovo grave e nel momento in cui io lasciai scivolare a terra l’oscuro tabarro e il tricorno, Marat e i cortesi presenti non seppero celare un’espressione d’angosciosa disapprovazione di fronte alla mia figura di donna. Il peplo, sebbene nascondesse perfettamente ogni curva del corpo, aveva registrato dunque un curioso imbarazzo il cui conseguente effetto si rivelò essere un innaturale silenzio. Marat trattenne il fiato, e così fece la mia platea. Cominciai: «È cosa universalmente riconosciuta che una donna sia creatura vivente e umana, al pari dell’uomo. E se quest’ultimo non mostra le sue vere doti di cacciatore di anime e di arti e di potere immenso, egli, ebbene, deve essere rinnegato. Così deve accadere alla donna. Colei che si sottopone alla sola cura famigliare e a tutti i servizi, senza mettere a frutto la propria razionalità, deve scomparire. Con tutto il rispetto, se mi permettete l’ardire, non reputo necessario affrontare davanti a questo vasto e quanto mai attento pubblico un distico saffico. Voi, anime maschili, dovreste accettare quel sentimento che noi chiamiamo umiliazione. Saffo era donna, donna antica e pura, e vestiva questo peplo ch’io oggi rivendico con le mie stesse pagine. Io non necessito di alcun travestimento: con questo mi rivolgo a Voi, Monsieur Marat. Non sentiteVi in diritto di comprendere ciò che dico, io Vi capisco. Io ben riconosco la Vostra immensa, eppur limitata mente, che a fatica Vi concede di riconoscere che non esiste una mezza giustizia o una mezza dignità: un uomo o è morto o è vivo, io affermo. In nome di quel Dio che avete a disdegno, chiedo si conceda dunque piena libertà e giustizia all’intero popolo francese. Non rinnegate la Vostra nobile natura, o saggi, nella mancata comprensione di parole che Voi giudicate femminili. In nome della Vostra dignità in cui tanto credete, io esigo che chiunque trovi fandonie questi suoni scritti dall’inchiostro delle mie labbra sia incoraggiato ora o mai più a pronunciarsi contrario. Mi si dimostri l’errore, se è quello che Voi cercate».
Io ero la Pallade Atena di Rembrandt. Medesimo sguardo, stesse labbra, uguali capelli. La mia bocca ancor tutta tremante si riposò e, inghiottita nel silenzio, non s’aprì più. In quella sede io ero stata unica artefice della crudele morte della mia lingua ribelle e madre di una nuova dignità.
Qui i miei ricordi s’interrompono, e si riaprono soltanto in quel maledetto giorno che mi vide condannata per abuso della professione. Era il 12 Maggio 1789 quando salii sul patibolo delle esecuzioni pubbliche, divenendo dunque un divertimento mondano largamente apprezzato dai bassifondi parigini. Era il giorno in cui mi venne marchiato a fuoco il petto, reso sanguinante dalla lettera ‘E’. Io, favellante natura femminea secondo Marat, ero stata incoronata Empereur des ordures, Imperatrice di sciocchezze. Chi m’incise tuttavia non seppe, o forse non comprese, il vero titolo che mi era stato affidato dal filo teso del destino. Ecrivain. Scrittrice.
Il 12 Maggio nacque Josephine, l’Artista libera, la nuova me.

Desidero ora portare la mia ‘E’ marchiata sul petto nella terra dei Lords, Ve lo ripeto. Reco nel sangue i moti di quel giorno e del 14 luglio, data che segnò la mia fuga da Parigi e che vide aprirsi le tormentose danze di quel mio cammino che sarebbe stato costantemente inseguito dal cane rabbioso ch’io chiamo persecuzione.
Io Vi scrivo, Vi scrivo ancora, col mio simbolo nascosto dalle vesti di quell’istante in cui io fui incisa.
Giunta a Londra Vi darò mie notizie, non temete; sapete molto bene ch’io ho il dono dell’onestà e della fede assoluta in ciò che Voi mi promettete. Da buona Hauptmann, non posso che dirVi la verità. Da buona Ecrivain, non posso che scriverVela; chi crea ha in sé la chiave del mondo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010