Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
15ª edizione - (2012)

Didone

Moriremo invendicate, ma moriamo” esclamò. “Così desidero discendere tra le ombre. Beva questo fuoco con gli occhi dal mare il crudele Dardanio, e porti con sé la maledizione della mia morte” (Virgilio, Eneide - IV, 659-662)

In fondo lo sapevo. Sapevo che non sarebbe durato a lungo.
Si è trattato semplicemente di una breve parentesi: un temporaneo oblio dei sensi mi ha colto, ha instillato in me lʼillusione. E così il mio animo di donna forte, concreta si è spezzato e al posto di esso si è insediato il sogno ingannevole di poter avere un futuro diverso, e con il sogno una fragile, iridescente speranza.
Ho trascurato la mia città, la mia gente e con tutta me stessa mi sono dedicata a coltivare questo sentimento nuovo, così totalizzante e impietoso.
Dico nuovo ma non è esatto: ho amato Sicheo tanto tempo fa, e mai avrei pensato di poter sostituire il mio diletto, di poterne oltraggiare la memoria, concedendomi a un altro, e non solo, amando un altro a tal punto. Ho rifiutato Iarba e molti altri, nemici che premevano sui miei confini; nessuno mi avrebbe mai biasimata se avessi contratto un onorevole matrimonio dʼinteresse, per il bene del mio popolo e per la sua sicurezza. Non lʼho fatto perché la morte di Sicheo mi aveva indotta a provare disgusto alla sola idea di un legame con altri. La risoluzione di non lasciarmi più andare ad alcuna passione faceva parte di me, della mia corazza, della mia immagine di donna e sovrana, capace di far fronte alle avversità con orgoglio e fermezza; quasi me ne compiacevo ormai, mi beavo della mia rettezza. Ma ero in torto e presto la vita mi ha dimostrato che mi stavo sopravvalutando: sbagliavo nel credere di poter controllare a tal punto il mio crudele cuore umano, di poter decidere del mio destino senza riguardo verso gli dei.
Venere aveva deciso e Cupido ha colpito: da allora non ho fatto che precipitare.
Sono precipitata prima in un vortice di dubbi e domande, di tentennamenti ed esitazioni.
Poi è venuta la caccia galeotta, la pioggia, la grotta. Ho ceduto e ne sono stata felice come non mai. Ho conosciuto nuovamente lʼamore e con esso la gioia delle persone semplici, di coloro che possono concedersi piccoli atti di egoismo, possono inseguire i propri sogni e veder compiute le proprie speranze.
Eppure evidentemente, solo ora me ne rendo conto, io non sono una di quelle persone.
Le mie speranze sono state destinate prima a cadere per mano di mio fratello, poi a sgretolarsi di fronte allʼabbandono. Ho udito le parole di Enea, fredde e distaccate, e mi sono chiesta se fossero davvero lo specchio del suo animo. Mi era parso, poco prima, preso da una passione quasi pari alla mia; ma allora come poteva affrontare lʼaddio con tanta fermezza, con indifferenza quasi? Ho visto la sua espressione, il modo nervoso con cui si tormentava le mani: in quellʼultimo incontro ho catturato e assimilato ogni dettaglio, sforzandomi di fissare ogni cosa nella memoria. Ciò che mi ha colpito di più è stato il suo sguardo, quegli occhi color nocciola hanno scavato nella mia anima un solco che nemmeno la morte riuscirà a cancellare. Ho imparato a leggerli, quegli occhi, e durante il nostro ultimo, fatidico colloquio vi ho letto ogni sua emozione: speravo di trovarci rimpianto, tristezza, delle implicite scuse. Non è andata così, però: allʼinizio esprimevano lʼesitazione, ma è stato solo per un secondo, subito dopo, mentre iniziava a parlare, si sono persi, come inseguendo qualcosa di grande e lontano, qualcosa da cui mi sono sentita immediatamente esclusa. Lui parlava, ho capito subito che nelle sue parole avrei trovato dei miei sospetti; così queste hanno iniziato a perdere gradualmente di significato, mi scivolavano addosso. Insomma, non mi interessavano le sue giustificazioni, i suoi pretesti. Dal momento in cui ho capito che sarebbe partito lʼho condannato.
Ho maledetto lui e la sua stirpe, ho guardato le sue navi, le navi maledette che, approdando sulle mie rive, avevano dato inizio a ogni sventura e ho desiderato di vederle inabissarsi o sfracellarsi sugli scogli. Ho pregato affinché debba soffrire a lungo e patire le pene più crudeli prima di potersi insediare nella nuova terra che sembra bramare tanto. La fiamma dellʼamore che avevo provato, quella stessa fiamma che avevo teneramente alimentato durante la giovinezza del nostro amore, si era ormai trasformata in un incendio furioso, ansioso di sprigionarsi sulle membra troiane per cancellarne ogni traccia.
Gli ho augurato il peggio e, in quel momento, ero sincera.
Ora, però, in questi ultimi fatali istanti il mio pensiero non va alla terra che sto abbandonando, alla mia città o al mio popolo, e nemmeno alla mia cara sorella: il mio pensiero ritorna a lui, Enea, e si sofferma non più con rancore, ma con tenerezza. Mi spengo con lʼimmagine dei momenti migliori che abbiamo trascorso e con lʼanimo serenamente rassegnato e grato perché, in fondo, muoio, certo, ma dopo aver vissuto davvero.

Note:
Chiaramente la mia è una rilettura di alcuni eventi del IV libro dellʼEneide che si discosta in parte dalla vicenda canonica: nel libro Didone muore consumata dal dolore e dallʼodio, non cʼè traccia di ripensamento. Eppure visto che sono una romantica mi è piaciuto riproporre la sua morte con questo cambiamento.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010