Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
15ª edizione - (2012)

Mutevole unità

Ogni notte la stessa storia, e Anna si sentiva morire.
Strinse più forte il bambino a sé e gli coprì l’orecchio scoperto, dissimulando questo gesto protettivo con una carezza. Lui dormiva tranquillo, sembrava non essersi accorto di nulla.
“Era davvero esausto…” pensò, un misto tra dolcezza e apprensione. Era venuto in camera sua e si era sdraiato accanto a lei: non riusciva a dormire e voleva confessarle il vero motivo per cui aveva un occhio nero.
«Dei bambini ce l’hanno con me» aveva detto in un soffio, pronto a prendere la sua punizione per la precedente bugia. La madre non aveva detto una parola, l’aveva semplicemente abbracciato, facendolo sdraiare con lei nel loro piccolissimo letto. L’odore di muffa e umido e alcool impregnava lo smunto lenzuolo, ma lui si era lasciato cullare dalle lacrime e non aveva sentito più niente.
«ANNA!»
Anna aveva provato a ignorare i rumori provenienti dal fienile. Si alzò e andò a controllare che anche gli altri bambini fossero al sicuro, nella stanza accanto. Il silenzio della notte, interrotto solo dallo scricchiolio del pavimento sotto i suoi piedi, la spaventava.
Il buio la terrorizzava. L’idea di non poter vedere quello che poteva accadere. L’essere cieca e impotente e non poter proteggere i propri figli da quel mostro che si aggirava per la strada.
La porta del fienile si aprì. Distingueva chiaramente il pesante sussurro che il portone di legno produceva stridendo col terreno. Trattenne il respiro. Voleva che fosse un incubo. Un fragore di strumenti che cadono e risate e urla e pianti. Una voce disumana che intona canti goliardici. Sentì i passi strisciare sulla paglia, i singulti farsi sempre più vicini. Si piazzò davanti alla porta della stanza e aspettò. Il cuore in gola, la consapevolezza di quel che sarebbe accaduto.
La porta che sbatte nel cuore della notte, come tutte le notti, e il marito che rientra dall’osteria.
«ANNAAAAA!»
L’uomo sbraitava. Lei gli si fiondò contro nell’istante in cui comparve all’ingresso. Gli tappò con violenza la bocca con la mano. L’uomo era troppo forte per lei. Si liberò facilmente della sua presa e la scaraventò a terra. Anna tentò uno schiaffo in pieno volto ma venne subito bloccata. Suo marito rise divertito, i denti marci in vista. Le passò l’altra mano lungo la coscia, infilandola sotto la gonna. Anna iniziò a dimenarsi, avrebbe voluto urlare ma a che sarebbe servito? Lui arrivò dove voleva e lì si bloccò. Rise ancora e si alzò di scatto.
«Stanotte sono stanco!» biascicò. «La prossima volta sarai più fortunata!»
La donna si alzò di scatto e lo guardò con odio. Si avvicinò al tavolo della piccola sala d’ingresso e prese il piatto su cui aveva lasciato la frugale cena, sperando che quella notte andasse diversamente. Sbatté il piatto sul mobiletto posto sul muro laterale della scarna stanzetta e con foga aprì uno dei suoi cassetti, facendolo traballare.
«Non ho intenzione di mandare avanti la casa da sola, non ho intenzione di far soffrire i bambini solo perché il padre è uno sciagurato!»
Cercava di non urlare, per non farsi sentire dai figli nelle stanze accanto. La rabbia le montava dentro, facendola tremare nel vano tentativo di rimanere calma. Dal cassetto tirò fuori uno straccio e lo posò sopra il cibo ormai freddo che il marito non aveva accennato a toccare.
«Tu hai smesso di sprecare i nostri pochi denari per andare a ubriacarti!»
Con questa imposizione si voltò a guardare negli occhi l’uomo che aveva sposato, la prima volta, quella notte, da quando era rientrato.
«E tu hai smesso di comportarti come se in questa casa fossi la padrona» disse lui con quel ghigno che Anna purtroppo conosceva fin troppo bene.

«Ciao Floriana.»
«Ciao Luciana. Come stai?»
«Si sopravvive…» Luciana rispose con un sorriso. «Dai, vieni, accomodati.»
La donna fece cenno all’amica di entrare in casa. Floriana aveva vent’anni. Bionda, di un biondo cenere, carnagione troppo pallida, quasi da malata, i grandi occhi azzurri spenti. In piedi, lì all’ingresso, sorridendo composta con dei vestiti in braccio, sembrava un ritratto sbiadito di una giovane donna su cui era stata passata una spugna per far scolorire le labbra e le gote. Troppo magra, piccola anche in quei vestiti evidentemente non della sua misura, ereditati sicuramente da qualche parente. Il sorriso era cordiale, felice.
«Ti ho portato altro lavoro! Mamma non riesce ancora a muoversi dal letto e manda me a fare le commissioni…» spiegò la ragazza, mentre prendeva posto su una sedia accanto a Luciana e poggiava sul tavolo il suo fagotto.
La padrona di casa la guardò amorevolmente. «Cara, lo sai che per qualunque cosa puoi contare su di me».
«Grazie» disse Floriana sorridendo tristemente.
«Adesso occupiamoci di questi stracci! Li faremo tornare come nuovi!»
Con gesto rapido prese una camicetta color prugna, ago e filo, e iniziò a lavorare.
«Stanotte delirava» cominciò a sorpresa Floriana.
«Bruciava di febbre, abbiamo passato la notte a bagnarle la fronte con un panno, ma non accennava a migliorare…».
«E tuo padre cosa dice?»
«Lui continua a lavorare e non dice nulla ma sono convinta che anche lui…».
Luciana sbadigliò.
«Oh, Luciana, scusami. Non volevo annoiarti!»
«No, tranquilla, tesoro. Anzi, scusami tu. Anche stanotte non sono riuscita a dormire e alla lunga inizia a farsi sentire la stanchezza… Ma torniamo a te!»
Luciana riprese vita. Aveva finito di attaccare il bottone alla camicia e ora teneva alzata una gonna che aveva bisogno di una toppa. Cominciò a lavorare con velocità e precisione, le dita che procedevano esperte lungo la stoffa assottigliata dagli anni.
«Conosco qualcuno che potrebbe aiutarti. È un ragazzo giovane che chiede molto poco per una consulenza. Alla fine è anche lui nella nostra stessa situazione…».
Alzò la gonna e si passò il filo tra i denti. Lo spezzò e ne fece un nodo. «Domani passa di qui. Sai, gli devo sistemare l’abito delle grandi occasioni perché deve uscire con… Non so se la conosci… Rosa!»
«Sì, la conosco! Giusto di vista, ma ho presente.»
«Ecco. Quindi quando viene gli posso dire di fare un salto da tua madre.»
«Sarebbe fantastico! Luciana, non so come ringraziarti.»
«Figurati, se non ci si aiuta tra di noi…».
La donna tirò su l’ultimo indumento da rassettare, un’altra gonna. «E con questa che ci devo fare? Mi sembra in ottime condizioni.»
«Di quella volevo chiederti se riuscivi ad allungarla. La piccola Lucia non è più così piccola.»
«Già, tua sorella ormai è più alta di te.»
Le risate leggere delle due donne si persero nell’aria cristallina della piccola casa. Dalla finestra filtrava una luce leggera e il tiepido sole di quella mattinata di maggio non riusciva a scaldare l’ambiente per quanto piccolo.
«Per questo lavoro, però, mi occorre un po’ di tempo.»
«Certo, quando posso passare? Domani, dopo…?».
«No, passa sabato. Come ti dicevo in questi giorni sono piena di cose da fare.»
«Perfetto, allora.» Floriana si alzò dalla seggiola scricchiolante e raccolse le sue cose. Tirò fuori dal suo borsellino alcune monete e le lasciò cadere sul tavolo.
Luciana iniziò a gridare. «Ti vieto di pagare oggi! Riprenditi i tuoi soldi, consideralo un regalo da parte mia per tua madre. E anzi, portale anche questa.»
E così dicendo rimise le monete in mano a Floriana e si diresse verso l’armadio dal quale tirò fuori una grossa coperta di lana.
«Ma… Ma voi come farete?» chiese Floriana, la coperta già lasciata cadere tra le sue braccia.
«Oh, tranquilla! Mio marito non c’è mai, io il freddo non lo soffro e i bambini hanno le loro!»
La ragazza la guardò riconoscente.
«E ora, via! Sparisci!» Luciana tagliò corto, unendo alle parole dure un tono scherzoso. Accompagnò la giovane alla porta e si salutarono affettuosamente.
Luciana rientrò in casa e si portò di nuovo all’armadio. Ne tirò fuori dei vestiti e, non avendo altri appuntamenti per la mattinata, uscì.

La piccola stanza era gremita di gente. Chi seduto per terra, chi in piedi. Alcuni si tenevano in disparte, non del tutto sicuri di volersi trovare lì quella notte. Altri, invece, già in prima fila, aspettavano con impazienza l’arrivo della persona che aveva organizzato quell’incontro segreto.
Quella persona stava dietro una porta, ascoltando il brusio che diventava sempre più insistente, torturandosi le mani. Maria si morse un labbro ed entrò. Doveva apparire sicura di sé. Quella decisione fu subito frantumata nell’istante in cui il silenziò piombò come un macigno e tutti i volti dei presenti si voltarono nella sua direzione. Decise di non lasciarsi sopraffare dall’emozione e tirò dritto, attraversando a grandi falcate la provvisoria sala di riunione. Due giovani uomini la seguivano, pronti ad aiutarla in caso di necessità.
Maria si fermò dall’altro lato della stanza e guardò la piccola folla. Fece un respiro profondo e calmò il battito irrequieto del cuore.
«Sappiamo tutti perché siamo qui» proruppe. La sua voce non sembrava nemmeno appartenerle. «Perciò non perdiamoci in chiacchiere inutili.»
«Nessuno mi aveva detto che a capo di tutto questo c’era una donna!». Un uomo si alzò dal centro della stanza agitato, interrompendola subito. «Abbiamo perso in partenza, non abbiamo credibilità così.»
«Qual è il problema, Francesco?» ammonì il ragazzo che aveva accompagnato Maria all’ingresso.
«Mi sembra di avertelo detto, Pietro» Francesco pronunciò il nome stizzito.
«Maria è in grado di farci vincere, è più determinata di tutti noi messi insieme. Almeno, ascoltala.»
«Non ho nessuna intenzione di stare qui ad ascoltare una sgualdrina!»
Pietro avanzò imperioso. Era più giovane, e di corporatura più esile rispetto a Francesco che, nella sua altezza, lo fissava in cagnesco. Erano entrambi scuri di capelli, la pelle costantemente abbronzata dalle ore trascorse sotto il sole e le larghe spalle da braccianti. Sul volto dell’omaccione cresceva un’ispida barba bruna e due grosse sopracciglia gli cadevano sugli occhi socchiusi che invitavano a sfida il giovane organizzatore.
A un silenzioso comando i due si scagliarono l’uno contro l’altro, afferrandosi per le spalle. La folla si aprì, iniziando a incitare i contendenti.
In quel vociare solo Maria fissava la scena inorridita.
Fu all’ennesimo attacco di Francesco su Pietro che decise di intervenire.
Urlò un «basta!». Un semplice «basta!». Un tuono sovrastante qualunque altro suono.
Tutti si bloccarono, la sala assolutamente immobile.
Lei avanzò. Spostò con una mano Pietro e guardò negli occhi Francesco.
«Che ne dici di conservare una simile energia per la guerra?»
L’uomo non rispose sotto lo sguardo deciso della donna.
Maria proseguì, rivolgendosi a tutti questa volta: «È proprio di questa forza che abbiamo bisogno. V’importa davvero di essere in minoranza? V’importa davvero di non essere armati? V’importa davvero di essere sconfitti, di avere paura, di essere deboli?».
Li fissò, volendo penetrare col suo sguardo ognuno di loro.
«V’importa davvero di morire?»
Le rispose l’eco delle sue parole, riflessa negli occhi di quegli uomini e quelle donne riuniti lì per paura, disperazione, curiosità, coraggio, pazzia, speranza.
«No…» Pietro fu il primo a rispondere, titubante.
Maria lo incitò con gli occhi.
«No» ripeté più convinto. «No, no, no…» più ripeteva quella piccola parola, più essa diventava importante. La sua voce cresceva d’intensità e sicurezza. A lui si unirono una, due, tre, …venti voci finché tutta la sala non inneggiava quella sillaba.
La voce di Maria sovrastò tutte le altre: «È giunto il momento di cambiare il nostro destino. Abbiamo sofferto per troppo. È tempo di prenderci la nostra rivincita!»
Sorrise soddisfatta. La gente urlava in visibilio.
«I miei informatori mi avvisano che Garibaldi è quasi arrivato.» riprese quando fu calato nuovamente il silenzio. «Tra poco salirà da noi, e noi saremo pronti ad accoglierlo. La nostra forza di volontà, li schiaccerà!»
Le urla ricominciarono. Francesco ripeteva «Evviva la sgualdrina». E la gente acclamava il suo nome.
Le riunioni proseguirono, una dopo l’altra con due uomini in camicia rossa che portavano costantemente informazioni al piccolo gruppo di ribelli siciliani. Finché tutto fu pronto.
15 maggio. Le truppe borboniche piazzate sulle alture del colle, posizione favorevole, ottimi armamenti… All’opposto Garibaldi, senza cavalleria o moderne armi.
Maria si accorse solo in quell’istante quanto fosse più grande di lei quell’avventura in cui si era imbarcata. Ma credeva in quello che faceva e aveva convinto troppe persone a seguirla per poter mollare, proprio lei. E se fosse sopravvissuta, giurò a sé stessa, non si sarebbe fermata lì.

Quel giorno faceva caldo. Una piccola folla stava riunita in un campo poco fuori paese. L’aria arida rendeva i contorni del cielo sfuocati, sottolineando l’irrealtà di quella scena. Quella scena che tutti desideravano essere irreale.
Un bambino dai capelli scuri si staccò dalla folla e con il bastoncino che teneva in mano si piegò e scrisse una data, incidendo il terreno: 17 marzo 1861.
Guardò con gli occhi pieni di lacrime e aggiunse un disegno. Una piccola coroncina sulla lettera finale di ogni nome. Quel nome che era stato fatto mettere sotto la piccola croce in legno che svettava nel povero terreno.
Anna Luciana Maria.
Non aveva voluto che sulla sua tomba si scrivesse il cognome.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010