Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
15ª edizione - (2012)

Un amore senza Dio

Ricordo che, la sera che sono morta, ho messo una tazza di latte nel microonde.
Lo facevo spesso, nell’ultimo periodo. Avevo preso l’abitudine di leggere qualche pagina prima di addormentarmi, la tazza stretta nella mano destra mentre, con l’altra, cercavo di tenere aperto il libro e di girare le pagine allo stesso tempo.
Era un’impresa ardua e finivo sempre per scolarmi rapidamente il latte per poter leggere in santa pace.
Comunque, quella sera, c’era Orgoglio e Pregiudizio ad aspettarmi sulla mensola.
Era più o meno la terza volta che lo rileggevo.
Elizabeth era senza dubbio il mio personaggio preferito. Lei era forte, lei era il tipo di donna che tutte vorremmo essere.
Lei sapeva dire di no, in un’epoca in cui sembrava fantascienza che le donne potessero alzare la testa e conquistarsi un’identità personale, era capace di essere indipendente e coraggiosa. Non sono mai stata una donna così.
Mi chiamo Claire, vivo a Milano più o meno da sempre.
Se ripercorro tutte le diapositive della mia vita, quasi si trattasse di un film, un tragico film - ma quale vita non lo è, tragica? - la vedo sempre sullo sfondo, Milano.
Forse non ho mai fatto caso al luogo in cui vivevo finché non sono morta. Paradossale, no?
Elizabeth, ecco, anche in questo è diversa da me. Jane Austen l’ha calata nel suo ambiente, Elizabeth senza la campagna inglese non è Elizabeth. Lei lo sa, la sua storia è completamente pregna dell’odore dei campi, del frinire dei grilli e del canto della pioggia.
Forse anche il suo Mr. Darcy la sente, quell’atmosfera. Come potrebbe essere, altrimenti, così romantico, così bello e dannato, così principe azzurro, senza il suo cavallo?
Dio, questi sono i ragionamenti sfaccendati che, probabilmente, si fanno solo da morti. Mi sento patetica.
Il mio - e chiamarlo mio ancora adesso è decisamente paradossale, ma il lupo perde il pelo, non il vizio, si sa - Marco non era esattamente come Mr. Darcy e forse sono solo invidiosa del grande amore di Elizabeth.
Lui lo avevo sposato perché ne ero innamorata. E non parlo di uno di quegli innamoramenti fulmine, da farfalle nello stomaco e da brividi su per la schiena.
Parlo di quell’amore coltivato, silenzioso, che colpisce come il veleno delle sigarette. È lento, ma penetra talmente in profondità che quando, all’improvviso, per un motivo o per l’altro, non puoi più fumare ti senti come se ogni atomo del tuo corpo si stesse ribellando alla forza che lo tiene unito agli altri.
Lui era come un pacchetto di sigarette. Irrinunciabile.
Il giorno che mi aveva lasciata avevo pianto.
Sono sempre stata una donna dalla lacrima facile. Mi commuovevo quando, in un film, moriva un cane o un cavallo, un gattino o un qualsiasi animaletto. Mi commuovevo quando vedevo qualcosa che mi ricordava della mia infanzia e del bene che avevo voluto e che sempre vorrò ai miei genitori.
Tuttavia non ho mai pianto per amore, non finché non è stato lui, quell’amore.
La nostra è stata una storia dolce-amara. Ho assaggiato un po’ tutti i sapori di questo mondo, sulle sue labbra e no, non era uno chef, anzi, ma il ricordo che ho di lui è proprio dolce-amara, precisamente, dolce-amaro.
Tuttavia nello sfiorare l’anima di quell’uomo così complicato e, per certi versi, incomprensibile, avevo provato tutte le sensazioni che, un qualche dio, ha permesso all’uomo di provare.
Credo di non essere mai stata così felice, così rabbiosa, ferita, delusa, innamorata, entusiasta, euforica come in quegli anni. Tre.
Tre anni lunghissimi, ma che, alla fine, quando il tempo era agli sgoccioli, mi erano sembrati terribilmente brevi, un battito di ciglia e se ne erano andati.
Lo dice anche Rose - la rossa del Titanic, per intenderci - alla fine lui, noi, la nostra storia. Vivevamo solo nei miei ricordi.
Io amavo fotografare, mi ero anche regalata una bella macchina - spero che dall’aldilà sia concesso fare pubblicità -, una Canon di ultima generazione e avevo catturato immagini di ogni genere. Dai comunissimi fiori in macro, ai paesaggi, le foto con gli amici, qualche ricordo dei miei animali domestici. Un po’ di tutto, ma non lui.
Lui non c’era mai, nelle mie fotografie.
Era come un vampiro, non sono mica loro che non compaiono né negli specchi né nelle foto?
Ebbene, lui era il mio vampiro. Era schivo e nemmeno il mio obbiettivo riusciva a catturarlo.
Perché? Non l’ho mai saputo. Suppongo che ciò c’entrasse con il fatto che, nonostante la nostra storia sia durata ben tre anni, lui non abbia mai voluto impegnarsi con me.
Le foto erano solo la punta dell’iceberg - per rimanere in tema! - contro il quale mi sono schiantata e che mi ha fatta inesorabilmente naufragare.
Sott’acqua, nascosto, c’era tutto un mondo di frasi non dette, di regali non fatti, biglietti non scritti e baci risparmiati.
Ecco, io e Marco vivevamo al risparmio. Mi sembra pazzesco dirlo ora, ma eravamo dei grandi risparmiatori: noi risparmiavamo l’amore. Risparmiavamo i baci, risparmiavamo i gesti di dolcezza.
Forse ci aspettavamo tempi migliori. Oppure peggiori, non lo so, non ho mai capito perché tutta questa smania dell’attesa, tutta questa voglia di non dare mai troppo.
Ma cos’è troppo? Troppo in amore è un fraintendimento, troppo è solo discretamente sufficiente, quando si parla della persona che amiamo.
Sono noiosa e malinconicamente banale? Probabilmente, ma, attraversando passo-passo la nostra relazione mi sono resa conto che tutto quello che è scritto nei libri è vero e no, non è estremizzato.
Il dolore che si prova quando si viene lasciati è reale, lo si può quasi toccare: è una voragine che si apre nel petto e che si rifiuta di guarire. È un baratro che fa impressione, dà le vertigini.
L’affetto, l’amore, anche loro sono tangibili, non li si può pronunciare, li si può solo sentire, li si può solo conquistare, un passo dopo l'altro.
Elizabeth, Elizabeth me lo ha insegnato, l’amore è orgoglio e l’amore è pregiudizio. L’amore è l’annullamento delle distanze e il superamento degli ostacoli del nostro grande ego. L’amore è una battaglia.
Non voglio spostarmi su un terreno che non è di mia competenza, soprattutto ora che sono bellamente defunta, e quindi non parlerò di psicanalisi, non parlerò di filosofia.
Parlerò solo di me, della mia esperienza. Quella la conosco molto bene, forse più di quanto vorrei.
Non vi è mai capitato di ripensare alla vostra vita e desiderare di poter scegliere se essere protagonisti o solo spettatori?
A me è successo svariate volte. Quando sono morti i miei genitori avrei tanto voluto essere seduta sulla poltrona di un cinema, avrei tanto voluto piangere, ma farlo per finta, nel buio di una sala, con i popcorn davanti e la certezza che, una volta che le luci si fossero accese nuovamente, la tristezza sarebbe semplicemente evaporata.
Purtroppo non è andata così, la malinconia mi è rimasta incollata addosso ogni giorno della mia esistenza.
Anche con Marco è stato così.
Forse l’impatto è stato meno violento, per certi versi, ma il dolore che ho provato, il senso di frustrazione e la rabbia, quelli non se ne sono mai andati, mi si sono cuciti addosso, come una seconda pelle e da allora non mi hanno più lasciata.
Mi sono chiesta mille volte e più, il perché di quell’azione affrettata, di quell’addio imprevisto, però non sono mai riuscita a darmi una risposta. Ma forse, la verità era solo troppo scomoda, troppo dura da accettare.
Marco un giorno aveva semplicemente riempito una valigia e se ne era andato. Mi aveva lasciato un post-it in cucina, come faceva spesso quando voleva avvisarmi che avrebbe fatto tardi la sera e non voleva spendere i soldi di un sms. Aveva usurpato quell’abitudine rassicurante e aveva colpito proprio dove sapeva che sarei stata più indifesa.
Ricordo ancora il senso di sgomento, di perdita, che provai quando lessi quelle poche righe. Anzi, non si trattava nemmeno di righe, solo parole, stilettate infami.
Il bigliettino recitava più o meno così: Nessuna bugia. Grazie per questi anni. Ciao.
La prima reazione era stata quella di accartocciarlo e gettarlo via, ma con il tempo ho versato tanto dolore su quella carta giallognola e mi sono resa conto che era tutto ciò che mi rimaneva di lui.
Qualche settimana dopo ho scoperto che aveva levato le tende solo per poter continuare una relazione clandestina che andava avanti già da un po’. Prevedibile, probabilmente.
Nessuna tragedia, nessun melodramma. Questa è la mente degli uomini.
Quante volte ho represso il desiderio di contattarlo, di urlargli in faccia il mio dolore e la mia rabbia, solo Dio lo sa.
E quante volte, invece, ho imposto a me stessa di non cercarlo, di non chiedergli di tornare da me? Decisamente troppe.
Orgoglio. Orgoglio e pregiudizio.
Il pregiudizio che solo una donna può provare, il pregiudizio della mancanza d’amore.
Sembra un gioco di parole senza senso, ma è tutto lì. Forse se fossi stata più coraggiosa l’avrei riavuto indietro, Marco. O forse no, forse se fossi stata veramente coraggiosa l’avrei etichettato subito come un bastardo e non ci saremmo nemmeno sposati.
Che poi alla fine eravamo sposati solo in comune. Solo.
Io avevo indossato un vestito azzurro, con delle bellissime sfumature indaco sulle maniche, ce l’ho ancora nell’armadio, da qualche parte, in attesa di una figlia quasi donna che non verrà mai.
Come dicevo, non ci siamo sposati in chiesa.
Forse alla nostra relazione è mancata proprio quella spiritualità che pervade rapporti come quello di Elizabeth e Darcy.
Ecco, la nostra era una storia senza Dio. Patrocinata dal niente, garantita da un patto di infedeltà. Ammetto che non mi sono sentita in colpa per il gesto che ho fatto, tutt’ora non mi sento in colpa.
C’era una tale assenza di Dio in quella casa, un tale silenzio che non c’era spazio nemmeno per Lui. La nostra storia, il mio amore per un uomo infedele, egoista e pieno di sé è finito quella sera di maggio.
Ricordo con estrema nitidezza gli ultimi istanti della mia vita. Sono rimasti come incastonati nella retina di due occhi che ormai non mi appartengono più e si sono accoccolati tra i ricordi importanti: il primo giorno di scuola, il mio matrimonio, la morte dei miei genitori. Una gita al parco.
La mia morte.
Avevo appena messo nel microonde la tazza quando, lanciando un’occhiata annoiata alla mensola sopra il mio letto avevo preso in mano Orgoglio e Pregiudizio. La copertina era perfettamente liscia ed era piacevole al tatto.
Ci avevo sfregato il palmo della mano, quasi fosse un gesto di saluto, e poi avevo appoggiato nuovamente il libro al suo posto.
La sensazione delle pastiglie che scivolavano giù per la gola secca era stata come una doccia fredda.
Improvvisamente mi ero resa consapevole del gesto che stavo compiendo, ma, senza problemi, mi ero convinta che ormai era troppo tardi.
Troppo tardi per vivere di nuovo una vita senza senso. Troppo tardi per mettere da parte l’Orgoglio e sconfiggere il Pregiudizio che mi spingeva a credere che un nuovo inizio non fosse possibile.
Il barattolino vuoto dei sonniferi era incredibilmente leggero tra le mie dita, quasi etereo e, per la prima volta dopo mesi, anche il mio cuore si sentiva leggero.
Era la stessa sensazione che si ha quando, dopo una giornata lunga e faticosa, ci si toglie le scarpe e ci si abbandona su un letto. Le membra sospirano e si rilassano, libere dai vincoli dei vestiti e le palpebre si abbassano naturalmente, stanche.
Il microonde aveva lanciato il suo ultimo grido disperato, nel tentativo di trillare, come una sveglia.
Ma io me ne ero già andata.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010