Non ti chiedi mai se tutto sia inutile
Non ti chiedi mai se tutto sia inutile? Ogni inizio ha dentro di sé la sua fine, ogni vita nasconde la sua morte. Così giacciamo, giorno dopo giorno. Cosa rubiamo al nostro tempo? Vaghiamo per sorde meraviglie e assordanti silenzi; come diceva quel Tale: soltanto un’ombra errante, un guitto che in scena s’agita un’ora pavoneggiandosi e poi taciuto per sempre: una storia narrata da un idiota, colma di suoni e di furia, senza significato.
Le urla fanciullesche soffocate nel pianto
Le preghiere drogate calpestate nel fango
Le esalazione dei cadaveri in guerra e dei civili in patria
I sorrisi sporchi alla tele,
Le parole fatali nelle chiese, nelle case, nei locali.
Le ossa scarne, mendicanti nelle vie
I gesti vuoti e affannosi.
E le risate anestetizzate dalla polvere e dal vino della sera
E i capi soggiogati del mattino
E la mia penna che scrive inutili lamenti.
Il fuoco che arde villaggi e corpi
Il fumo che sale infettando altri vivi
E il vagito tra le braccia materne di un altro morto.
E quel dio lontano,
E quelle notti scappate alla Noia
E quegli occhi, quelle labbra, quei capelli…
L’arroganza della necessità, della verità, della libertà
Un vacuo affaccendarsi eterno proiettato nello spazio.
E gli affronti, e i vizi, e le virtù
Immersi nell’oceano silente del tempo
Fragili pupazzi consumati.
I malanni di vita, i malanni di morte
E i malanni del Nulla.
La decisione da prendere è una sola: avere abbastanza forza di spirito necessaria per rifiutarsi di osservare il paesaggio degradarsi con noi. Improvvisare un nuovo atto, recidere il filo al quale siamo aggrappati e ricordarci di come eravamo giovani e forti; quando la noia non ci aveva ancora ucciso e l’amore era il nostro compagno d’avventura.
Tante, troppe cose. La verità è che non sono più sicuro di cosa voglia realmente; addormentarmi per un lungo viaggio, tranquillità e sicurezza, un paradiso tutto per me. Ominidi travagliati nella loro sprezzante angoscia quotidiana, nel vuoto che tartassa le arterie, in onde che ci percuotono verso una spiaggia deserta. Naufraghi, senza speranze e ambizioni per il domani. Misere figure dinanzi agli occhi del Tempo. Carcasse in putrefazione, mentre uno stormo di predatori vola sopra di noi. La Bellezza che oggigiorno stiamo sfigurando, che celebravano gli Uomini Eterni coi loro canti, è scomparsa.
Kubla khan crolla, Kubla khan non è mai stata
Per chi contemplava troppo inviando
L’ingegno a sconosciuto altezze.
Prendete il mio ossigeno, non so che farmene
Prendete la mia libertà, non l’ho mai conosciuta
Cento, mille, milioni di spettatori
E un palcoscenico vuoto
Gli attori hanno smesso da tempo.
Dove sono? Li trovi in un angolo a pregare. Pregano, pregano, pregano la salvezza. La salvezza in navicelle spaziali dove sommersi dalla gravità, possano danzare in equilibrio col cosmo. Il sognare ci tieni legati alla Terra da millenni. Spogliamoci di tutto. Siamo nulla, veniamo dal nulla e torneremo a casa un giorno. Banale parlare, più stupido ancora progettare. Disperdiamoci in essenza; l’attimo senza luogo e tempo, l’oblio di sé.
Nascenti piaghe sul tuo corpo in trincea
Inarrestabile la voragine che divora tutto
Non scappa l’ombra rincorsa per desolati
Deserti e palazzi arabeschi; è lo stomaco
squagliarsi in lava vulcanica
Dal cuore asmatico lambente aria
Conati di vomito vermiglio e gelido
Il greve peso non regge le gambe tue spezzate
Non riesce il corpo trattener l’anima
È la voragine del nulla che il mondo anima
Urla lancinante murato vivo eternamente
Madre! Riconducimi a te!
In te giacevo consolato e placido
Madre! Riportami nel tuo grembo
Alla terra umida parlava e le labbra
Baciavano fredde il suo volto caldo.
Ma nell’attesa il chiarore della Luna ci affascina, la dolcezza dei raggi all’alba ci accarezzano come una madre affettuosa, il mare in tempesta richiama l’impeto che ci tormenta dentro. Ubriachiamoci dunque! Di vino, di poesia o di virtù!
Se non possiamo afferrare l’eternità, possiamo almeno assaporarla per un attimo. Come asmatici vogliamo la nostra aria, come pellegrini vogliamo il nostro santuario. Il nostro corpo fatica a trattenere l’anima che anela al proprio respiro, il cuore pulsa freneticamente per tornare in vita.
Forse è giunto il momento di reinventarci, di strapparci dal nulla quotidiano. Lavoro, famiglia, identità ci incatenano alla polvere che soffoca i nostri bronchi, come ancore infilzate nei nostri piedi, martelli che sfondano il cranio e grevi macigni nello stomaco. È giunto il momento di lottare, ma per cosa?
Per la verità fine a se stessa, che non raggiungeremo mai.
Per quel lume sempre acceso, che tanto ha arso i Poeti della Storia, animando piacere e dolore, sesso, vita e morte.
Per quell’attimo in cui l’attore inventa un mondo, lo spazio e il tempo si fermano e in scena resta solo lui, sospeso.
Per quelle pagine che incarnano essenze e hanno strappato via le gesta e le passioni degli Uomini.
Oh come vorrei che le mie parole diventassero carne! Vorrei che abbandonassero l’inchiostro di cui sono fatte e la carta su cui poggiano per prendere il volo e dar vita a ciò che possono solo sfiorare. Invece sconsolate, stramazzano al suolo. E io con loro.
Sarò un mostro per vivere tra mostri. Sfogherò la mia perfidia, la mia brutalità e mi nasconderò dietro altre maschere più belle, più accurate, intagliate nelle più rinomate industrie della produzione. Mentre prima erravo trascurato, ora camminerò tra la folla e tutti mi riconosceranno, ma io non riconoscerò più me stesso. Andrò per le strade da solo, senza voltarmi, senza dire il mio nome, senza comparire una seconda volta.
E continuava a ripetere: sono solo un ragazzo, sono solo un ragazzo, solo un ragazzo, un ragazzo…
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