Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
16ª edizione - (2013)

Bianche: a diciassette anni non si puņ esser seri

Ancora, per un anno, la scuola
a preservare la mia fanciullaggine cocciuta.
Poi, la mia vita sola
in mare aperto - come una vela sperduta.
(Antonia Pozzi)

Prima di scorgere il bianco splendore, dovette perdersi in una spirale di legno. Era buia la sala antica del Castello Sforzesco, quando il giovane vi entrò. Non era certo la prima volta: conosceva bene la strada per perdersi, prima nel legno, poi nel candido marmo che sembrava urlare tutte le antiche gioie e tutti i sanguinanti dolori del mondo. I suoi occhi neri si posarono sulla bianca pietra, e il giovane sorrise: era diversa da come la ricordava. La madre e il figlio, stretti in un ultimo abbraccio, freddo come il marmo, caldo come il fuoco. Forse era quella l’immagine tanto cercata da Boccadoro.
Il ragazzo si avvicinò alla statua e alzò lo sguardo ai volti abbozzati nella pietra che lo sovrastava. Andrea, a vederlo di fronte, era un liceale come ce ne sono tanti a Milano, una di quelle facce che si incontrano spesso e spesso si scordano, come portate via dal vento, ma a guardarlo di profilo era un’altra storia, sua nonna glielo ripeteva sempre: aveva un perfetto esempio di profilo greco, come quello del bronzeo auriga di Delfi, il ragazzo dagli occhi di brace nero e verdastro come il mare. Era un profilo adatto a essere impresso dagli antichi scultori di dei nel marmo venato di rosa. Andrea gettò un’occhiata furtiva al guardiano del museo, che stava seduto sotto la finestra alla sua sinistra, col volto corrucciato, le braccia conserte e lo sguardo perso chissà dove. Sulle labbra ben delineate del ragazzo si schiuse un sorriso, mentre, a passi felpati, girava lentamente intorno alla Pietà Rondanini fino a dare le spalle alla finestra e al guardiano. Il giovane stese la mano, bianca come il freddo marmo che le sue dita sfioravano di nascosto, lo stesso marmo che le dita di Michelangelo morente avevano accarezzato, su cui si era versato il sudore e forse il sangue dello scultore che lo percuoteva con lo scalpello per strappare alla pietra due figure imprigionate in un abbraccio di morte. Ma la morte lo aveva avvinto a sé prima che l’opera fosse conclusa. Come avrebbe reso, il grande artista, il volto del figlio? Lo avrebbe scavato nell’omero della madre? E quel braccio, troncato da uno dei ripensamenti della mente impulsiva, era stato dimenticato senza un corpo da sostenere? Andrea si chiedeva spesso che cosa avesse in mente Michelangelo mentre abbatteva il primo abbozzo della sua creazione e scavava nel marmo restante, consumato dalla travagliata gestazione artistica. Aveva tremato? Aveva avuto paura mentre il fragore del metallo sulla pietra che crollava gli rimbombava nelle orecchie? Aveva avuto ripensamenti tardivi mentre schegge di marmo invadevano la stanza, e la polvere si depositava attorno a quel candore ferito eppure nuovamente pronto a essere liberato dal marmo? Nella pietra cruda e gelida, nei corpi solo intuibili, si leggeva dramma e travaglio così umano, così arcaico. Dinnanzi a quella pietra Andrea aveva sempre l’impressione di sfiorare il mistero tanto agognato e sapeva che il velo stava per cadere: ma l’incanto segreto non si ruppe neppure quel giorno, e il giovane, sconfitto e sedotto dal bianco enigma, allontanò le dita che indugiavano sul basamento della statua.
Una statua incompiuta, che Michelangelo non avrebbe mai potuto portare a termine: non c’era più marmo, consumato dall’artista volubile nei repentini cambi di idea. Era questa la seduzione più grande della Pietà Rondanini: l’eterno non compimento. Ad Andrea metteva soggezione, come gli mettevano soggezione le pagine bianche dei taccuini che spesso riempiva di sottili chimere e abbozzi di personaggi dagli occhi tristi con un futuro condensato in inchiostro e carta. Erano bianche promesse quelle pagine, era una bianca promessa la Pietà Rondanini, e anche Andrea era una riottosa promessa, una pagina bianca tutta da sporcare di vita, come le betulle sono sporcate di nero nelle cortecce nodose. Il suo futuro nebuloso e bianco, come il cielo che riluceva dalla finestra, poteva essere scolpito in un blocco di marmo e scritto su un taccuino, bastava vincere quella soggezione e scapicollarsi in folli voli. Ma non riusciva a non sentirsi come una vela sperduta in mare aperto, come un fragile aeroplanino di carta sballottato dal vento. Certo che gli sarebbe piaciuto fare mille cose, certo che si rifugiava spesso nei suoi castelli in aria, nelle chimere che offuscano gli occhi e che sono di norma molto più gradevoli della realtà. Poi però c’è la vita vera, che non è quello scanzonato galleggiare su mari fantastici, ma è azione, riflessione meditata, e insomma, è fatta di niente, di uno stanco trascinarsi più o meno inconsapevole. Ma a diciassette anni non si dovrebbe essere seri, così Andrea pensava poco al futuro e alle pagine bianche.
Da bambino Andrea vedeva nei quadri e nelle statue forme improbabili, che l’artista nemmeno si sognava. A casa di sua nonna c’erano stampe in bianco e nero. Per molti anni Andrea aveva scorto draghi e vecchie streghe e castelli, dove invece si trovavano solo paesaggi inglesi. Quando riuscì a scorgere un fiume sulla cresta del drago, la chioma di un platano nel fuoco che sputava, si accorse di essere cresciuto. Non ricordava cosa aveva visto la prima volta nella Pietà Rondanini, quando sua nonna lo aveva portato al museo del castello Sforzesco per vedere le armature scintillanti dei cavalieri antichi. Adesso che era cresciuto, nel marmo vedeva il futuro. L’immagine del futuro era quell’abbozzo di statua vecchio di cinquecento anni e mai finito, che però ogni giorno cambiava. Chissà cosa vi avrebbe visto in dieci anni, chissà in cinquanta. Si sarebbe avvicinato, in quell’atmosfera sospesa, e si sarebbe specchiato nel marmo vivo, cercando di svelare un enigma insolvibile. Forse allora non si sarebbe più sentito come una vela sperduta, e anzi, avrebbe guardato al futuro con fiera baldanza, come sua nonna, che ripeteva spesso con terribile ironia: Ho passato tutta la vita a pensare al futuro. Ora ne ho poco, ma, cosa vuoi farci, odio ricordare il passato. Vivo in un eterno presente, finché dura! e poi scoppiava in una fragorosa risata, tragica, ineluttabile, rassegnata, e i rimproveri di Andrea, che la esortava a non parlare in modo così brutale, venivano soffocati dalle risa irrefrenabili e irriverenti della nonna e del nipote scanzonato. Al bianco futuro avrebbe pensato l’indomani: a diciassette anni non si può essere seri.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010