Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Lucy
di Martina Pastori
Primo premio

Ci penso, a volte.
Ce ne stavamo sedute su un muricciolo di cemento, Lucy e io. A guardare la polvere, col sale che ci screpolava le labbra. A respirare il blu cobalto del mare, zitte zitte. A berci tutto il sole che c’era, gomito a gomito, lontane anni luce.
I nostri pensieri non facevano rumore, erano taciti come il mutismo d’ovatta che ci abbracciava, taciti come noi. Il mondo che conosciamo è coagulato nelle parole; il mondo è parola. E noi, quel giorno, eravamo lì, e avremmo voluto dirci mille cose, ma non sapevamo come, e tutto ciò che potevamo fare era dondolarci tra i nostri cavilli, con le bocche secche e vuote, e lo sguardo perso tra le pennellate del cielo. Chiuse in un silenzio che ci stava stretto, che ci faceva formicolare le idee.
Lucy: guance imbrattate, tanta voglia di ridere, piedi scalzi, callosi. Che poi, a voler essere onesti, non ero nemmeno sicura che quello, Lucy, fosse il suo vero nome. D’altronde, importava qualcosa?
Qui, un nome è tutto; lì, invece, poco più che niente. Te ne vai in giro senza troppi vestiti indosso e con l’anima pesta di lividi, lì, carico di tempo da buttare al vento, di fantasie sublimate, e, nonostante questo, non riesci a lavarti via dalla faccia il sorriso, una piaga d’allegria, quello stesso sorriso abbacinante che aveva anche Lucy.
Qui hai bollette da pagare. E il cane da portare a spasso, e i gerani da annaffiare, e blocchi d’interminabili ore da consumare sui banchi di scuola. Liberarsi, sdipanare il gomitolo non si può, solo seguirne il filo, e sperare che ti conduca fuori dal labirinto, presto o tardi.
Teneva la sua mano nella mia, col palmo all’insù. Io, con l’aria di chi la sapeva lunga, ci scarabocchiavo sopra ghirigori, fiorellini, e quant’altro riuscissi a tirare a galla dal repertorio della bambina che ero stata. Di tanto in tanto, tratteneva il fiato, e gli occhi le s’illuminavano; erano grandi, onnivori, gli occhi di Lucy, e niente più contava, quando li guardavi, perché inghiottivano la miseria, e ti lasciavano solo uno spugnoso senso d’inadeguatezza, proprio qui, in mezzo al petto. Ti sbucciavano il cuore, quegli occhi. Lo vedevo: le vedevo cucita addosso una vita senza eroi, le vedevo precluse tutte quelle costellazioni di scelte che si spalancavano sotto di me, eppure sapeva ancora essere felice, di una felicità acre e struggente, fatta di piccoli desideri melensi, e non aveva smesso di esserlo, felice, mai, neanche per un respiro.
Guardate noi: non siamo la razza umana, ma razzi umani.
Viviamo senza neppure rendercene conto, cadiamo sotto il peso di uno zaino di ambizioni stropicciate, passiamo il tempo a tirarci pizzicotti, nella speranza di risvegliarci dalla realtà uggiosa che c’incuba. E facciamo del nostro meglio per aggrapparci agli interstizi di questo mondo ripido, pedine tutte intente a un serrato progredire, che ogni giorno ci porta un po’ più in là, lontano, verso orizzonti tremendamente vicini a ciò che eravamo, che siamo tutt’ora, che non smetteremo mai di essere. Per poi scoprire che sì, era solo un’alata illusione, e che no, non ci siamo mai schiodati dal punto di partenza. Giriamo semplicemente in tondo.
Casa, lavoro, telefonate urgenti, altre inutili, progetti asfittici, specchi d’inchiostro, amori di carta. E corsi di ballo, impegni improrogabili, amicizie trascurate, film che stanno al cinema troppo poco, cibo in scatola, denaro a non finire. Abbiamo tutto quel che si potrebbe avere, e siamo ossessionati dall’unica cosa che non riusciamo a controllare: il tempo. E allora lo ripartiamo, lo distribuiamo, puntiamo sveglie, azioniamo cronometri, appendiamo calendari, compriamo cibi precotti.
Einstein sosteneva che non esiste, il tempo, che non è altro un’invenzione orchestrata da noi, per dare un senso a un mondo che gira a velocità impazzita, e che ne è scevro. Noi lo ficchiamo da tutte le parti, il tempo, ci diamo al buon tempo, diamo tempo al tempo, guardiamo le previsioni del tempo, ammazziamo il tempo, facciamo il buono e il cattivo tempo, perdiamo la nozione del tempo. Attacchiamo post-it per tenere tutto a mente, riempiamo ogni battito delle nostre esistenze, clessidre senza fondo, destinate a esaurirsi, prima o poi.
Viviamo vite scompaginate, vendiamo l’anima per il superfluo e rincorriamo il nostro senno fin sulla luna. Studiamo, ci laureiamo, troviamo un lavoro, ci sposiamo, mettiamo su famiglia per poi, alla fine, guardare l’impero che abbiamo innalzato dal nulla con dei nipoti sulle ginocchia e con la pelle incartapecorita che ci cola sul corpo navigato, esauditi, completi.
Forse, in fin dei conti, era per questo che Lucy sorrideva sempre. Non aveva di questi problemi. Il tempo scorreva con molta più calma, dov’era lei, potevi sentirlo accarezzarti la pelle, e spingerti giù, contro il suo ventre accogliente.
Nessuno si sforzava di trovare un senso a ogni singolo istante, tutti spalancavano le ali, ma non riuscivano ad alzarsi in volo, e così si accontentavano di quel poco che era loro concesso, a piccoli sorsi, rassegnati a una felicità perfetta, benché dimezzata. Il segreto stava tutto nell’attingerne con frugalità.
Il mare era liscio come non mai, il giorno in cui incontrai Lucy.
L’odore di alghe ci stringeva la gola, e le onde s’increspavano contro la battigia con delicatezza, quasi non volessero svegliare la sabbia, quasi che mani invisibili ci stessero tessendo sopra una ragnatela di ristagno. Ricordo che mi chiesi come Lucy vedesse il mare: se una barriera che la tagliava fuori da tutto quello che non poteva che immaginare, o un accrocco di confini proibiti.
Non c’era niente, nella sua espressione, era bidimensionale, vacua, fatua. Solo l’ombra di una vaga consapevolezza, una nota stonata, come se già da tempo, pur piccola com’era, avesse disattivato i pensieri, e ne fosse digiuna, perché a volte fa solo male, pensare, e si sta meglio con la mente in stand-by, allagata di silenzio edace.
Ci sono persone che ti rimangono dentro, che ti si cuciono sottopelle, che non puoi più cancellare dai ricordi, neppure se fanno sanguinare. Sono poche, si contano sulle dita di una mano; Lucy era una di quelle. Cercava il contatto fisico, ti si aggrappava al braccio, come se fosse uno scricciolo in balia delle correnti; studiava i braccialetti che avevi ai polsi, e ci passava sopra le sue dita tozze; ti si appoggiava alla spalla, e sembrava che supplicasse portami via, voglio vedere il mondo, io, sono stufa di questa prigione.
Già, una prigione senza mura, fatta di terra assetata, di colori vividi e cieli cavi, di colonie di bambini bercianti e sciupati, cui i turisti gettano le caramelle dai finestrini delle jeep, di antilopi che si rincorrono nel pulviscolo vermiglio, di pesce essiccato e venduto in carta di giornale, di madri che gironzolano coi neonati attaccati ai petti nudi. Lucy ne aveva gli occhi pieni, erano immagini vivide che la graffiavano dall’interno, c’era da aver paura che scoppiasse.
Dormiva in un giaciglio, a livello del suolo sterile, avviluppata in una zanzariera bucata, che serviva a poco o niente. Abitava in una casupola col tetto in paglia, e ogni volta, nella stagione delle piogge, bisognava pregare che non crollasse, o altrimenti sarebbero stati guai, e nuove fatiche. Invece di lavarsi i denti, ci strofinava sopra qualche foglia medicinale, e poi andava in giro a sbandierare il suo sorriso troppo grande per quel visino così puerile. Indossava una gonna rosa un po’ larga, che non arrivava a coprirle le ginocchia incrostate di fango e vecchie cadute. Sapeva leggere, con cadenza strascicata e insicura; gliel’avevano insegnato a scuola. Era intelligente, Lucy, ed era questa la sua maledizione. Chi può dirlo: forse, se avesse avuto qualche libro, sarebbe stata una vorace lettrice. Lo sanno tutti, però, che sono l’ultima delle preoccupazioni, i libri, laggiù, tra quei tuguri di melma e sudore, dove manca tutto meno che l’aria da respirare.
Il tramonto era qualcosa d’indimenticabile. Le giornate finivano presto, e, se ti recavi al loro capezzale, ti si marchiavano a fuoco in fronte. Il sipario delle tenebre sgominava la luce, con un bagliore fulmineo, e il sole, un tuorlo perfetto, imporporava la notte coi suoi ultimi raggi. Poi, d’un tratto, il nero. E perdevi il senso del tempo, del tuo perché, del tuo esserci in quell’universo appena sbozzato, crudo, meta di pionieri e di sognatori.
Non c’era sera in cui Lucy e i suoi mancassero l’appuntamento col crepuscolo. Andavano sulla spiaggia, si sedevano a gambe incrociate, con la sabbia che gli s’incastrava nei vestiti, e assistevano allo spettacolo in riverente silenzio, ogni volta come se fosse la prima. Poi giocavano a nascondino a ritmo della risacca, esploravano bugigattoli che conoscevano a menadito e facevano le verticali, ferendosi le mani sui frammenti di corallo, cantando canzoni popolari nel buio friabile. Correvano a casa col fiatone, boccheggiando, i polmoni che bruciavano, le gole scorticate a suon di risate.
Lucy aveva un’altalena. Non era nient’altro che una lunga corda che penzolava dai rami di un baobab rinsecchito, ma lei ne andava fiera, perché poteva dominare il mondo e fare acrobazie da scavezzacollo, sulla sua altalena. Tutti gliela invidiavano. Così come invidiavano il piccolo cane a rotelle di un ragazzino del villaggio vicino, lascito consapevole o meno di una famiglia di americani. Se lo trascinava sempre appresso, quel cagnolino, sui massi e nell’acqua, e si era scolorito tanto da lasciare intravedere il legno; eppure rimaneva un giocattolo d’inestimabile valore, cui tutti sbavavano dietro, tantoché facevano a botte per portarlo a spasso.
Noi, invece, siamo qui, pietrificati nelle nostre routine collaudate, che mangiamo pizza la domenica sera e c’incantiamo di fronte alle vetrine dei negozi, che desideriamo quel paio di scarpe rosse, e quell’ultimo pezzo da aggiungere alla nostra collezione, e in ogni caso la costante soddisfazione dei nostri bisogni, anche dei più insignificanti, non fa che ridestarci nello stomaco un appetito sempre più vivo.
Noi siamo qui, che aspettiamo quella promozione al lavoro, ci dipingiamo le unghie, stiriamo le nostre esistenze ordinate, viaggiamo sugli aerei, dormiamo sui materassi. Noi siamo qui, e Lucy se ne sta lì, e ogni notte, prima di addormentarsi, ripensa a quella sua Africa piatta, granitica, soggiogata dalle barbarie e dall’arsura, a tutto ciò che potrebbe diventare da grande, e che non sarà mai.
Noi siamo qui, e Lucy se ne sta lì, reclusa, e ogni giorno macina chilometri su chilometri con la nuda terra che le sfrigola sotto i piedi, va in città e cerca di sgraffignare qualche biscotto, e nel frattempo capta i pollini di una realtà lontana, nascosta dietro un cancello invalicabile, chiuso con la chiave che qualcuno ha gettato sul fondo di un pozzo. Lucy se ne sta lì, e porta in spalla un foulard celeste, in cui tiene avvolto il suo fratellino appena nato, un piccino dalla faccia spigolosa, col moccio al naso, lo stomaco che è un buco nero.
Fa le prove per il futuro, Lucy, perché presto, troppo presto, anche lei sarà madre, perché si diventa madri subito, lì, non importa che tu abbia quegli occhi neri, impenetrabili, paludosi, capaci di vedere oltre: non bastano a trarti in salvo dal destino. E domani anche Lucy sarà una di quelle amazzoni che girano a seno scoperto, con una cesta colma in equilibrio sulla testa, la faccia dura come cuoio, e un lungo percorso sdrucciolevole davanti. Non sarà rimasto nulla dei suoi sorrisi accecanti, nulla di quel suo appiccicarsi agli estranei come una cozza allo scoglio, nulla di quel suo sconfinato bisogno di affetto, nulla della bambina che ho incontrato io sulla riva del mare languido.
Riacciufferò i pezzetti di tutti i tuoi sogni, Lucy, uno a uno, e li terrò da parte, se mai ti verrà voglia di venire a riprenderteli. Saranno nuovi, ancora incartati, pronti all’uso. Brinderò, e berrò anche per te tutta la vita che non ti hanno dato.
Ci penso, a volte. A Lucy, a tutto ciò che lei non ha avuto, al fugace intrecciarsi dei nostri fili, tutta colpa delle mani tremanti di un burattinaio inesperto.
Ci penso quasi sempre.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010