Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Storie di una vita passata

Avevo passato la mia giovinezza in un idealismo senza confini e senza fondamenta. Ero un sognatore, cercavo delle risposte che la vita non era pronta a darmi. Avevo passato tutta la mia vita ad aspettare qualcosa di diverso, qualcosa di migliore. A chiedermi cosa si provasse a vivere una vita senza sogni. Avevo passato tutta la mia infanzia a chiedermi come sarebbe stato il mio futuro, che cosa avrei fatto per vivere, chi avrei incontrato, amato, odiato.
Non so cosa mi passasse per la testa. Non so cosa mi avesse spinto a sperare nell’ignoto. Ma quel che è certo è che alla fine, l’ignoto, è diventato realtà. E il mio futuro, così, non l’avrei mai immaginato, in nessuna delle mie fantasie.
Il telefono squilla. Da quanto sta squillando? E dovrei rispondere, vero? Già, devo rispondere.
Magari è il dottore, mi aveva detto che avrebbe chiamato per dirmi di quegli esami, quelli del cuore.
Mi alzo dalla poltrona. Ottant’anni, e credo di non avere più il fisico. Sempre che io lo abbia mai avuto, certo.
E poi, oh, quel drin drin è proprio fastidioso. Ho capito, ho capito, sto arrivando! Perché abbiano dovuto inventare i telefoni, poi, non mi è ancora chiaro. Si stava così bene quando l’unico scocciatore era il postino. Eccomi qui, adesso rispondo!
– Pronto?
– Enrico! Come stai, vecchia canaglia?
Oh, no. Quella lagna egocentrica del signor Albertini proprio no! Potrei mettere giù la cornetta.
Fallo, Enrico, fallo! Al tre: uno, due…
– Bene, Guido. E tu?
Dannazione, ormai gli ho risposto. Non posso più riattaccare. Perché ho risposto?
–Splendidamente! Sai, ho appena finito di leggere qualcosa di quel filosofo… sì, sai, quel… come si chiamava? Ah, già: Nietzsche. Hai presente, no? Bene, trovo che esprima dei concetti Fa-vo-lo-si! Quel suo vitalismo, e la demolizione delle maschere… Meraviglioso, meraviglioso! Non come quei bigotti dei suoi predecessori, oh, no. Tutti a vivere seguendo le opprimenti e tracotanti regole della società e della religione… Ma come facevano, mi chiedo io? Che matti, che matti!
“Tracotanti regole…” ma come parla? Ah, e questa settimana è Nietzsche, allora. Non era lui che elogiava il rigore morale e religioso di Alessandro Manzoni, qualche giorno fa?
Le persone cambiano idea troppo velocemente, per i miei gusti. Leggono qualcosa che sembra interessante e bam! tutto il resto è feccia.
Ok, Enrico, adesso digli che hai da fare e riattacca.
– Ma non mi dire!
Dannazione, dovrei fare qualche analisi psichiatrica. Sì, lo dirò al dottore.
– Sì, sì! E poi, oh, non sai la novità!
Non la so e non mi interessa.
– Quale novità?
– Mia nipote Paola si è laureata in giurisprudenza, ieri, sai? Sì, si è laureata con 110. Sai, siamo tutti così contenti, che brava ragazza! Beh, sai, lei era così triste di non aver avuto la lode… allora per consolarla le abbiamo comprato un cane, uno di quelli tutti bianchi e pelosi, hai presente?
– Sì, ho presente.
– Ah, comunque chiamavo per chiederti… sai, visto che oggi è l’ultimo dell’anno, io e Teresa ci chiedevamo se volessi venire a cena da noi. Sì, sai, adesso che Marta… magari ti andava di passare la serata con qualcuno, o no?
– No, no grazie… sto benissimo qui a casa, sì. Viene mia figlia Laura a trovarmi. Torna da New York. Adesso, sai, dovrei chiamare il medico, quindi…
– Oh, ma certo, ma certo. Viene Laura. Certo. Come desideri. Mia moglie mi ha detto del tuo problema al cuore… mi dispiace.
– Già. Salve, Guido.
– Ciao, Enrico. Buon anno in anticipo, eh?
– Sì, sì.
Riattacco. Finalmente un po’ di pace. Penso che tornerò a sedermi sulla mia poltrona.
Accendo la radio. A che ora è il notiziario? Ah, alle quattro. Manca ancora mezz’ora. Mezz’ora! Potrei fare un sacco di cose in questa mezz’ora! Come, come… come cambiare stazione radio.
Ottima scelta, Enrico.
Vediamo cosa offre la casa. Il calcio non mi interessa. Il basket non mi interessa. L’economia non mi interessa. Ma che razza di musica è, questa?! Esisterà una stazione decente, a questo mondo?
Aspetta. Questa musica… questa musica la conosco! Riconosco la sua voce, è quella cantante francese, quella… Edith Piaf si chiamava, giusto? Oh, è passato così tanto tempo, da quando… da quando io e Marta… non posso crederci. Devo anche avere qualche fotografia, da qualche parte.
Forse sullo scaffale degli album. Vado a cercarlo.
Eccolo, è proprio lui! Sediamoci, sediamoci. Se non mi siedo potrebbe anche venirmi un infarto, vedendo questi reperti del paleolitico. Accidenti, mi sento vecchio in questi momenti.
Apro la copertina.
La prima cosa che vedo è lei: Marta. Com’era bella, quella volta. Era proprio il giorno in cui ci siamo incontrati… È passato tanto tempo, ma sembra sia successo ieri.
Negli anni ’40, dopo la guerra, lavoravo come fotografo per un grande magazzino, a New York. Non sapevo bene come ci fossi finito, a fare fotografie. Però mi divertiva, e almeno portavo a casa qualche spicciolo.
Quella era una di quelle giornate in cui la legge di Murphy sembra regnare sovrana. Mi avevano detto che avrei dovuto fotografare due modelle per un servizio su delle nuove pellicce dal taglio francese, e allora avevo preso tutto il mio armamentario e mi ero diretto da Russek’s, sulla Fifth Avenue. Per la strada aveva iniziato a piovere a dirotto, ed ero stato costretto a fermarmi. Ero entrato nel negozio più vicino, per ripararmi dalla pioggia. Avevo coperto la macchina fotografica con il mio impermeabile logoro, ed ero riuscito a salvarla per un pelo.
La vie en rose in diffusione dal giradischi. Non pensavo a nulla, finché non sentii una voce dirmi: «Scusi, desidera comprare della lana o è qui solo per via della pioggia?».
Mi girai, e nella mia testa i pensieri cominciarono a frullare. Era la ragazza più graziosa che avessi mai visto, con quei suoi grandi occhi vivaci, e il sorriso radioso. Iniziai a balbettare qualcosa che, non ricordo come, l’aveva fatta ridere. E, oh, mentre rideva era ancora più bella.
– Non è di queste parti, vero?
– No. Sono… ecco, sono italiano.
– Oh, non me lo dica! Anche mia madre lo è. E quella? Cos’è?
– Una macchina fotografica. Dovevo fare delle fotografie, ma poi ha iniziato a piovere e…
– Caspita, è un fotografo, quindi? Mi hanno sempre affascinata queste cose. Sì, sa… lei può cogliere l’attimo, e cose del genere. Io non ci riesco mai, a cogliere l’attimo.
Impugnai la mia macchina fotografica, e le scattai una fotografia. Lei rimase perplessa per un attimo, ma poi tornò a sorridere.
– Non dovrebbe almeno chiedermi come mi chiamo, prima di fotografarmi?
– Se glielo chiedessi mi direbbe la verità o mi rifilerebbe un nome d’arte?
– Chi lo sa. Ho sempre desiderato un nome come “Philomena” o “Calliope”. E poi non posso mica dire il mio nome a tutti gli sconosciuti che capitano qui dentro con una macchina fotografica e i vestiti zuppi, le pare? A meno che lei non voglia comprare della lana, certo.
– Non posso darle torto, su questo. Ma non ho un penny, purtroppo. O meglio, lo avrei se non piovesse, ma se non piovesse non sarei nemmeno qui.
– Oh, capisco. Beh, in questo caso potrebbe dirmi il suo nome, in cambio del mio. Che ne dice?
– Dico che mi chiamo Enrico. Ah, e ora è il suo turno.
– Marta. Piacere di conoscerla, Enrico il fotografo.
– Piacere mio, Marta della lana.
Mi avvicinai, raccogliendo tutto il mio coraggio, e la baciai. Non so perché lo feci. Non so perché lei non mi tirò uno schiaffo, o qualcosa del genere. Però so per certo che fu la cosa più giusta che io abbia mai fatto in vita mia.
Ai tempi Marta portava gli occhiali, ma io sapevo che vedeva molto più di me, con quella sua destabilizzante intelligenza e la sua meravigliosa parlantina.
Quando Marta mi disse di essere incinta decidemmo di tornare in Italia. Marta sosteneva che l’aria buona della Toscana potesse fare bene, sia a lei che al bambino. Era stato davvero così, in fondo.
Nostra figlia Laura nacque poco dopo, e la guardavo crescere ogni giorno, con la speranza di vedere in lei gli stessi occhi grandi di mia moglie, e la sua bellissima risata. Per vivere, avevo continuato a fare fotografie a matrimoni e per riviste locali, mentre Marta mi faceva da assistente.
Poi gli anni erano passati, Laura aveva compiuto i sedici anni, e la vista di Marta era peggiorata sempre di più.
Poco prima che mi lasciasse era diventata quasi cieca. Guardava spesso fuori dalla finestra, con quegli occhiali spessi e un sorriso indecifrabile, cercando di mettere a fuoco il mondo.
Quando mi disse che aveva deciso di lasciarmi non avevo capito subito cosa intendesse. Quando fece le valigie e varcò la porta di casa non dissi nulla. Quando ricevetti la sua cartolina, da New York, la strappai e la buttai fuori dalla finestra.
Non è rimasto più nulla, per me.
Forse è solo colpa mia. Forse sarei dovuto essere un marito migliore, un padre migliore, un uomo migliore. Ma la verità è che non ne sono mai stato capace. Essere se stessi è difficile, quando non hai stima di quello che vedi allo specchio, di quello che crei attorno a te vivendo. Passavo le giornate a piangermi addosso, perché non ero riuscito a viaggiare, a vivere, a raggiungere tutto quello che avevo sognato, dall’Everest all’Oceano Pacifico. Sono stato così cieco da non accorgermi che stavo rovinando tutto, che la mia vita si stava concretizzando e io me la stavo facendo sfuggire dalle mani. Sono stato io l’unico cieco nella mia vita.
Ma ormai questo non ha più molta importanza.
Oh, la canzone è finita. Finisce sempre tutto molto in fretta, vero? Così in fretta. Devo spegnere la radio, o finirò per passare tutto il pomeriggio su questa poltrona. Non che i miei progetti siano molto diversi. Forse sono solo patetico. Finisce tutto così in fretta. Già.
Così in fretta.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010