Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Un’esperienza di lettura - da La solitudine dei numeri primi

Era un freddo pomeriggio d’autunno.
Le foglie che qualche ora prima si rincorrevano leggere sul marciapiede, erano oramai rannicchiate nel fango, mentre il temporale avanzava lentamente verso il centro della città.
Era buio in casa. Alice e Mattia non si toccavano, non si guardavano, non si parlavano. Erano semplicemente distesi sul gelido pavimento in marmo della soffitta, concentrati ad ascoltare le gocce piovane scaraventarsi violentemente sul vetro della finestra.
Andarono avanti così per ore; riflettendo, forse, su ciò che li aveva legati così profondamente.
Il passato.
Erano devastati dal dolore a tal punto che, soli, non sarebbero mai riusciti a sopravvivere, in quella giungla di emozioni.
Mentre Mattia ripensava al pomeriggio in cui abbandonò la gemella ritardata in quel maledetto parco, dalla quale sarebbe dovuto tornare una volta conclusa la festa del compagno; Alice, invece, rifletteva sulla gelida e nebbiosa mattina in cui si ruppe una gamba sciando fuori pista, pur di non mostrare che se l’era fatta addosso.
Quei ricordi offuscarono di lacrime gli occhi di Alice. Tirò su col naso e cercò di alzarsi, aiutandosi con la gamba buona. Indossò l’enorme maglione di lana che poco prima stringeva a sé, e il tessuto grigiastro le coprì le sporgenti ossa del bacino.
«Coraggio, vieni» disse a Mattia, che nel frattempo studiava il perimetro del soffitto.
Egli si alzò lentamente, mentre Alice era già sulla soglia della porta. Mattia era un tipo silenzioso, non amava fare domande, anche in questo caso stette muto. La pioggia batteva ancora forte sui campi e sulle poche tegole della città. Mattia e Alice non ci fecero caso, come se fossero impermeabili a quella pioggia. Ormai camminavano da mezz’ora, nessuno osava fiatare.
Erano fradici, ad Alice era colato il trucco, creando leggere ombre di nero attorno ai suoi occhi, mentre lei, testarda, continuava a marciare per le viuzze in pietra. Mattia dietro a lei, teneva la testa china, immersa in chissà quali calcoli algebrici.
All’improvviso, Alice si fermò e Mattia non andò quasi a sbatterci contro. Dopo di che, alzò gli occhi e vide quel parco, si ricordò di Michela, dei suoi occhi spaventati e del momento in cui la polizia disse a sua madre che la figlia era scomparsa. Gli si aprì una voragine nel petto, il respiro gli divenne affannoso. Si voltò e cominciò a correre nella direzione opposta. Alice lo fermò.
«Cosa fai?». Mattia non le rispose. «Perché scappi?».
Lui abbassò lo sguardo alla domanda.
«Io pensavo dovessimo affrontare i nostri demoni interiori!».
A questa esclamazione Mattia ripeté «Pensavo…».
Alice lo fece sedere, poi si mise accanto a lui e fissò una pozzanghera dimenarsi infastidita dalle gocce di pioggia che la stuzzicavano. Così, prese le mani di Mattia mentre lui la lasciò fare. Poi, cominciò ad accarezzare con le rosee labbra le profonde ferite di lui. Alcune erano ancora aperte e gli mandarono una piacevole scossa sino al capo. Fu l’unico rapporto fisico che ebbero quel pomeriggio.
«Ti ho portato qui per un motivo: voglio che stringiamo una promessa.»
Dicendo ciò, Alice abbassò lo sguardo nuovamente su quella pozzanghera. Prese una grande boccata d’ aria e chiuse gli occhi, cosciente che ciò che avrebbe detto da lì a poco non sarebbe particolarmente piaciuto a Mattia.
«Vorrei che dimenticassi, che ricominciassi. Vorrei che smettessi di lacerarti la pelle, di procurarti quelle ferite, quei lividi indelebili sulla carne, te ne prego. Prometti?».
Mattia rimase in silenzio riflettendo su come evitare di rispondere. Ma poi decise di parlare.
«Prometto solo se tu prometti di fare lo stesso. Prometti di dimenticare? Prometti di ricominciare a ingerire cibo? Allora, prometti?».
Lei sollevò lo sguardo verso di lui e mormorò un lieve sì con la testa.
In quel momento vollero più di ogni altra cosa abbracciarsi, stringersi forte, fino a diventare un unico ammasso di molecole. Ma non fu così, loro, non erano così. Tutto ciò che fecero fu guardarsi negli occhi, senza sorridere, senza sfiorarsi. Ma a loro bastava. Perché quello sguardo significava tutto.
Quei due sguardi, assieme, avrebbero potuto penetrare l’anima di chiunque, sino a devastarla.
Lui, non accettava il mondo.
Lei, non era accettata dal mondo.

Loro erano così, due numeri primi, soli e perduti, vicini, ma non abbastanza per toccarsi davvero. E quel pomeriggio, quella promessa, quello sguardo, marcò il loro cuore a vita.
Anche da adulti. Quando ormai non erano più vicini. Ma quella promessa la rispettarono. Perché infrangerla avrebbe voluto dire privarsi di quel marchio, e nessuno dei due l’avrebbe mai permesso.
Mai.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010