Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Non avere paura per me

«Forse ci rendiamo la vita tanto difficile perché ci sia più facile la morte?»

Questo racconto parla della triste esistenza di una ragazza stanca delle persone, delle città, della vita e, soprattutto, di sé stessa.

Cara mamma,
è presto, il bar è ancora chiuso.
Volevo prendere un cappuccino, come facevamo sempre insieme d’estate, quando tutto ancora andava bene.
Le mie orme nella sabbia svaniscono lentamente, portate via da qualche leggera folata di vento.
I capelli sciolti, le mani fredde, gli occhi bagnati.
Non ho certezze, mamma. Non so se riuscirai mai a capirmi, o se ti mancherò.
Non so neanche se mancherò a qualcuno, o semplicemente se si accorgeranno che non ci sono.
Sai, mi mancava l’odore del mare, il profumo che ogni estate accompagnava la mia felicità, i miei sorrisi… te li ricordi?
“Andava tutto bene, era felice”, penserai.
Non è così, non più. Adesso le persone non sanno neanche cosa vuol dire stare bene.
Si chiama automatismo, mamma. Quando ti chiedono come stai e di impatto rispondi che «va tutto bene». È davvero così?
La verità è che a nessuno importa la tua risposta, è solo una forma di cortesia, accompagnata da quel sorrisetto falso.
Il mare è calmo, sdraiato nel suo letto di sabbia e conchiglie. Vorrei essere come lui.
Ha il potere di rispecchiare l’animo umano. Agitato, calmo. Agitato, calmo. Agitato. Calmo.
È maggio, è passato quasi un anno dall’ultima volta che sono venuta qui, dall’ultima volta che mi sono sentita in armonia con il resto del mondo, e soprattutto con me.
Non ci sono ombrelloni, sdraio, bambini che implorano i genitori per un gelato.
Ci sono solo io con me stessa, come sempre d’altronde.
La spiaggia sembra più lunga.
In questi mesi sono successe molte cose: i pianti, i finti sorrisi, le litigate, la scuola, i professori… sempre pronti a giudicarti attraverso un numero. “È il loro lavoro”, penserai.
Sì, mamma, ma come si fa a passare giornate intere con una ragazza, a guardarla negli occhi e non capire che sta male? 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10. È questo che siamo? Una serie di numeri finiti e insensati?
Sarei voluta nascere quando l’amore esisteva, quando uno sguardo era fondamentale, quando le persone contavano qualcosa.
Sarei dovuta nascere quando tutto aveva un senso e ogni persona aveva la sua dimensione.
Forse ha ragione nonna quando, guardandomi negli occhi, mi dice con la sua vocina tremolante: «Cara, si stava meglio quando si stava peggio».
Ormai, però, la vita è cambiata e l’unico modo per andare avanti è trascinarsi nella corrente, consapevoli che si finirà dietro una scrivania ad accontentare qualcuno che sarà sempre superiore. L’importante è apparire, giusto?
Sono seduta sulla riva adesso. Da qui si vede tutto e allo stesso tempo niente.
Qui posso essere me stessa, sommersa dai ricordi. Sono opprimenti: tornano sempre, nei momenti meno opportuni. Tornano quando ti senti sola, per ricordarti che una volta eri felice o quando la sera prima di addormentarti cerchi con tutte le forze qualche avvenimento o qualche vittoria che ti possa far dire «che bella questa giornata, sono felice», ma non lo trovi.
La verità, mamma, è che sono troppo legata al passato per pensare al presente o al futuro.
Mi piace ricordare, anche se fa male. Sai, però, cosa fa più male? Vivere in quella città, con quella gente, con quelle abitudini e quelle incertezze. Io sono la prima incertezza.
Ti chiederai cosa mi sta portando a fare questo. Hai ragione mamma, sono un disastro.
L’acqua è freddissima, ho la pelle d’oca, ma non mi importa.
Man mano che avanzo, i pantaloni si bagnano sempre più. Anche il maglione ora è pieno d’acqua.
Chissà come fanno a piangere i pesci. Forse questo mare è il risultato delle loro lacrime, e in parte, anche delle mie.
Sai, mi piace piangere qui, perché nessuno se ne accorge.
Ci sono ancora quegli scogli, la stessa barca. Magari c’è ancora la scritta che mi aveva fatto…
No mamma, lui non c’è. Che ti aspettavi? Ci credevi ancora?
Non tocco più il fondo adesso, neanche con la punta dei piedi.
Sono sdraiata adesso, i capelli che si allungano in questa magnifica distesa d’acqua salata.
La professoressa di scienze dice che in mare si galleggia meglio, sai?
Non avere paura per me, mamma. È solo un attimo e poi non sentirò più niente.
Un attimo solo. Stai tranquilla, come dici sempre tu , «una persona muore solo quando viene dimenticata».
Tu non farlo mai, non dimenticarti di me. So che sono sbagliata, lo sono sempre stata per tutti.
Per te, per i professori, per le mie amiche, per lui.
Come dice Bukowski, «non è mica la morte che conta, è la tristezza, è la malinconia. Lo stupore. Le poche buone persone che piangono nella notte. La poca buona gente».
Conserva queste parole nel tuo cuore, e non preoccuparti.
Basta che adesso mi lasci andare.
Molti dicono che quando si tocca il fondo ci sono due possibilità: uno, raccogli tutte le tue forze e torni su; due, ti lasci andare.
Vedi mamma, voglio lasciarmi andare.
Prima, però fammi una promessa. Promettimi che ogni volta che vedrai una ragazza camminare a testa bassa, le sorriderai e, avvicinandoti, le dirai che è bellissima, anche se non lo è.
Ora, però, è arrivato il momento di andare. Ricorda che ti voglio bene…
Grazie. Scusa per tutto.
Non sentirti in colpa, il problema ero io.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010