Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

La canzone disperata

Giovedì mattina. Ore 7:50.
Spostati, spostati, bambino! Sono in ritardo. Corro, la cinghia della borsa mi batte sulla spalla, i piedi quasi si incastrano tra di loro mentre cercano di raggiungere il tram che si sta fermando. Accelero. Salgo. Non c’è posto a sedere, rimango in piedi schiacciata tra una donna grassa e una bambina che si guarda la punta delle scarpe.
Ore 7:55. Oggi sono così stanca, Pablo. Il mio corpo, la mia mente, sono così stanchi. Insisto nel trascinarli, giorno dopo giorno, nel farli vivere e convivere con tutto ciò che mi trovo intorno, senza sapere bene cosa mi spinga a farlo. La paura di non farlo, forse.
«A volte, come una moneta mi si accendeva un pezzo di sole tra le mani».
Ho letto queste tue parole tutta la notte. Voglio anch’io il mio pezzo di sole.
Il tram si ferma sferragliando, fa salire un gruppo di ragazzi chiassosi. Urlano, ridono. Forza nei loro occhi, i loro sorrisi la vogliono buttare fuori, vogliono investire tutti. Sono cinque, due ragazze, tre ragazzi. Due si tengono per mano, si baciano frettolosamente, avidamente, come se non ci fosse più tempo. Due ridono ricordando qualcosa fatto in precedenza, l’ultima li osserva. Se ne sta un po’ in disparte e anche se non c’è dubbio che faccia parte del gruppo sembra diversa dagli altri: anche lei ha forza, ma non vuole investirne il mondo.
«Difficile è essere autunno, facile essere primavera. Accendere tutto quel che è nato per essere acceso. Spegnere il mondo, invece, facendolo scivolare via».
Lei è l’autunno, Pablo. Li guarda, ha un mezzo sorriso che le storce la bocca, occhi che osservano ogni più piccolo dettaglio e mani intrecciate dietro la schiena, nascoste, non si vuole far notare troppo. Quando scendo scendono anche loro, fanno la mia stessa strada, varchiamo lo stesso portone. Come ho fatto a non averli mai notati? A non averla mai notata? Penso a lei per tutto il giorno, Pablo, e se da una parte non voglio pensarci, dall’altra ne ho bisogno. Ho guardato quel sorriso a metà per cinque minuti, ho intravisto quelle dita intrecciate e nervose per un attimo, ma sono piena di lei. Mi viene in mente la tua Ode al chiarore, quella su cui non mi soffermo mai: «cammino e vado con i fiumi cantando con i fiumi, ampio, fresco e aereo in questo nuovo giorno, e lo ricevo, sento come mi entra nel petto, guarda coi miei occhi». Finalmente oggi ho un motivo per respirare.
Venerdì mattina. «Passano uccelli in fuga. Il vento. Il vento». Quando salgo sul tram non mi curo di venir schiacciata, io li sto aspettando. Eccoli, li ho visti, stanno per salire. «Cloe, muoviti, cosa stai facendo?».
Cloe. Sta mettendo un libro nella borsa, è rimasta indietro rispetto agli altri; loro la aspettano e bloccano le porte del tram, le dicono di muoversi, muoversi che sono già in ritardo! Finalmente sale, mi faccio largo, mi pestano i piedi, mi avvicino quel tanto che basta per poterla guardare senza che ci sia nessun altro in mezzo. Si lega frettolosamente i capelli e sbuffando appoggia la borsa su un sedile; tira fuori dei libri da cui cadono alcuni fogli spiegazzati che un uomo in giacca e cravatta si china a raccogliere; lo ringrazia con un mezzo sorriso. «Amo quel che non ho, tu sei così distante». Continuo a guardarla da lontano, mentre dice qualcosa a un amico e quello ride, poi mentre guarda fuori e si mette il cappuccio perché ha visto la pioggia. Faccio solo un movimento veloce e quasi senza accorgermene mi ritrovo in mano un foglio cadutole poco prima e rimasto, calpestato, in un angolo. Oso leggerlo solo quando scende accompagnata dai suoi amici, e mentre grosse gocce d’acqua bagnano e piegano il foglio, faccio la conoscenza di Cloe.

Scrivo su un foglio ciò che non posso dire. È qualcosa forse di indescrivibile, l’uragano di sensazioni che mi attraversa la mente, e forse non devo nemmeno perdere tempo a cercare di fermarlo sulla carta. Perché tutto passa così velocemente? Un seme che diventa un fuscello, poi un fiore, poi un fiore che appassisce e si piega. Io non mi voglio piegare. Ho paura di non riuscire a vedere tutto quello che voglio e di non riuscire a fare tutto quello che non ho fatto. E intanto cerco di vivere, di scacciare quella soffocante sensazione di incatenamento. Vattene! E quando se ne sarà andata? Rimpiangerò il momento in cui c’era e stava per andarsene, temendo il suo ritorno con paura.
Non voglio lasciarmi scivolare via la vita. E come a volte riesco ad assaporare il momento, altre volte mi ritrovo a pensarci come a un ricordo, del quale però non conservo l’emozione dell’istante.
Non mi vuole più vedere. Le ho detto che amo Anna e mi ha buttata fuori di casa. Dice che sono posseduta. Non ha capito che l’inferno non è dentro di me?
Sono diversa e non so cosa devo fare. Non c’è niente di più stancante che ridere quando non ne hai voglia, o guardare quando vuoi chiudere gli occhi. Tutto improvvisamente si allontana, lasciandomi sospesa a mezz’aria con una mano ancora tesa e un piede ancora incerto se staccarsi da terra oppure no.

Sabato. Piove da ventiquattro ore. Un secondo, una goccia. L’aria è gonfia d’umidità e anche sul tram c’è odore di bagnato; scarpe infangate che sgusciano sul pavimento, ombrelli che vengono chiusi e scrollati addosso agli altri passeggeri, capelli appiccicati alla fronte e nasi rossi. Ho infilato il piede in una pozzanghera, sento l’acqua che a poco a poco impregna tutta la mia calza e mi fa perdere sensibilità. «Mentre io seguo l’acqua che porti e che mi porta: la notte, il mondo, il vento dipanano il loro destino, e senza di te non sono ormai che il tuo sogno». Tengo in una mano il foglio rubato a Cloe, voglio restituirglielo. Immagino di associare finalmente una voce, un’espressione, uno sguardo a quella figura conosciuta da lontano. Ecco che sale. Mi scusi, grazie, può farmi passare? Mi avvicino. I due ragazzi che il primo giorno si baciavano si sono seduti lontani, forse si sono lasciati. Sono davanti a lei. Parla, parla! Sta guardando in basso, fa schioccare tra di loro le suole un po’ scollate delle sue scarpe, prima una poi l’altra, poi alza lo sguardo. Guarda per un po’ fuori, poi di nuovo qualche schiocco. Parla, parla, parla.
– Questo è tuo.
– Scusami?
Cloe guarda il foglio che le sto porgendo, tutto stropicciato e ondulato dall’acqua.
– Ti è caduto ieri mattina, l’ho raccolto ma eri già scesa. – Più o meno.
Lo prende in mano, lo legge di sfuggita e alza di nuovo gli occhi su di me. È uno sguardo tagliente, severo.
– L’hai letto?
– Sì.
Silenzio. Silenzio.
– Grazie. – Infila il foglio nella borsa, si alza e scende. Io rimango immobile.
«Scavi l’orizzonte con la tua assenza, eternamente in fuga come l’onda».

Lunedì mattina. Ha ricominciato a piovere. La domenica è trascorsa lentamente, pigramente, senza che io la occupassi in qualche modo. Non vedere Cloe, anche se solo per quindici minuti sul tram, mi ha dato un senso di incompletezza, la sensazione che si ha quando non si fa qualcosa che si dovrebbe fare. Ho deciso che voglio conoscerla. Due del gruppo si distanziano, si sono riappacificati? Cloe parla con uno che le mette un braccio intorno alla spalla, la fa sedere sulle proprie gambe e le accarezza i capelli. Sembra triste. Chiude gli occhi e si abbandona affondando il viso nel cappotto dell’amico, che la stringe forte dicendole qualcosa all’orecchio. «Mi piace quando taci perché sei come assente, e mi ascolti da lontano e la mia voce non ti tocca. Sembra che si siano dileguati i tuoi occhi e che un bacio ti abbia chiuso la bocca». Piange.
È martedì e Cloe non c’è. Ci sono i suoi amici, che rimangono in silenzio per tutto il tragitto, ma lei non c’è. Aspetto, Pablo, aspetto che questa sensazione di vuoto angosciante mi passi. Le persone intorno sono troppe. Le parole che sento sono insensate, le risate che vedo sono vuote. Vengo trascinata, sballottata in tante situazioni, non riesco a vivere. È il mio pezzo di puzzle mancante, lo so. Cloe è ciò che mi manca, quello per cui non riesco a trovare la voglia che permette a tutti gli altri di esistere. Scendo. Qualcuno mi dà una spallata, due ragazzi mi superano correndo verso la scuola. Vanno incontro a una ragazza con i capelli tinti di viola che sorregge un’altra ragazza, pallida e semi svenuta, che riconosco immediatamente. Velocizzo il passo, mi nascondo dietro un angolo e sbircio. La ragazza con i capelli viola si è messa a piangere, uno dei ragazzi che correvano prende Cloe e la fa sedere sul marciapiede, l’altro bestemmia e tira un calcio al parchimetro. Non riesco a sentire cosa dicono, ma la lametta che la ragazza tira fuori dalla tasca e porge singhiozzando a uno dei due amici mi fa sentire un brivido freddo lungo la schiena.
Mercoledì. Ormai mi ritrovo a pregare di vederla salire. Quando non la vedo arrivare mi siedo vicino ai suoi amici, tanto vicino da poter sentire ciò che dicono tra lo sferragliare sui binari.
– …Prenderla a calci e farla rinsavire. – dice uno.
– …Infelice…madre…
– …Anna?
In risposta a quest’ultima domanda tutti gli altri scuotono energicamente la testa. Il tram si ferma, riesco a sentire di più.
– È ancora peggio, lei vuole restarne fuori.
– Quando Cloe si sarà ammazzata vorrà sempre restarne fuori?
– Non so cosa possa aiutarla. Certo mettere in mezzo Anna non è la soluzione. Affidarla a qualcuno che l’aiuti?
– Sì, così la madre viene contattata e la riprende in casa e poi? Credi che Cloe sarebbe più felice vivendo con quella donna? È stata lei a cacciarla di casa.
– Non mi sembra che vivendo con te la situazione sia migliorata, anzi.
– Cosa vorresti dire?
– Che forse lasciarla da sola non è stata una mossa furba.
– Okay, viene a vivere con te, e vediamo se sei migliore di me a…
Un uomo di fianco a me risponde al telefono, parla ad alta voce e perdo la fine della frase. Si alzano, stanno per scendere, anche io mi dirigo verso le porte.
– Adesso basta, non è una questione di orgogli feriti. Se…
La ragazza lascia la frase in sospeso, tira fuori il telefono che sta squillando e risponde. Poi è questione di un attimo. Lei urla, si precipitano fuori dalle porte appena aperte dal conducente e corrono nella direzione opposta.
Il tram riparte lentamente.
Giovedì mattina. «Nessuno ci ha visto stasera mano nella mano mentre la notte azzurra cadeva sul mondo». Ha smesso di piovere, il sole ha rifatto capolino dopo quasi una settimana di acquazzoni. Non aspetto nessuno, so bene che non verranno. Stanotte ho fatto un sogno. C’eri tu, Pablo, che prendevi per mano una ragazza magrissima, del cui volto scorgevo solamente lo sguardo fermo ma dolce. Era una ragazza a me sconosciuta, dalla quale ero come stregata. Vi seguivo, mentre voi camminavate senza voltarvi indietro, mentre parlavate una lingua tutta vostra, senza che io potessi capirvi. Cercavo di comprendere le vostre parole, affannandomi, e finalmente ho cominciato a sentire anch’io la storia che ti stava raccontando. Era la storia di una bambina triste, cresciuta con una madre squilibrata che la credeva l’incarnazione del demonio. Viveva da sola; circondata da tante persone, ma sola. Era innamorata della sua migliore amica, l’unica persona che le desse affetto, ma il suo amore era proibito, forse addirittura sbagliato, malato. Questo era ciò che le diceva la madre, e le voci nella sua testa, quelle voci che non la lasciavano in pace, la turbavano, la convincevano di essere pazza, di essere un demone, lei era malvagia! Tu allora le dicesti che «l’amore, mentre la vita ci incalza, è semplicemente un’onda alta tra le onde».
Cloe staccò la mano, corse verso quell’onda e si tuffò. Addio! Avrei tanto voluto conoscere quella ragazza, Pablo.
Giovedì mattina, sono le 7:50. Il sole è alto nel cielo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010