Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Il racconto

«Che scrivere?» pensò Clark con un filo di tristezza per la mancanza di ispirazione.
Era un pomeriggio piovoso, il sole coperto dalle nuvole. Clark pensava a cosa stessero facendo gli amici, se stessero come lui ascoltando il rumore della pioggia contro il vetro della finestra o se stessero giocando tra di loro, come spesso facevano senza di lui. Quel pomeriggio Clark, dopo la solita giornata, se ne stava annoiato nella sua stanza senza sapere cosa fare.
Improvvisamente gli era balenata in mente una strana idea, quella di scrivere un racconto. Era da un po’ che ci pensava, ma mai aveva trovato il tempo di farlo. Pensò che forse sarebbe stato meglio non illudersi di essere in grado di saper scrivere una storia e questo lo affliggeva profondamente. Lui che andava così bene a scuola non era neanche in grado di scrivere un breve racconto?
Molti pensieri gli saltavano alla mente ma nessuno lo convinceva a pieno, gli sembravano banali, scontati. Continuava a distrarsi e a pensare ad altro, forse quasi per dimenticare per qualche istante che non era in grado di scrivere. Si fermava a guardare le gocce di pioggia sulla finestra che facevano a gara per chi giungesse al traguardo per prima; questo ricordò a Clark di quanto odiava le olimpiadi che la scuola organizzava annualmente.
Era sempre l’ultimo tra i suoi amici; perfino Stuart Johnson, la persona più strana della scuola riusciva a batterlo. Una volta gli parve che anche lo speaker delle gare lo deridesse annunciando il suo nome e la corsia in cui avrebbe dovuto correre: «Clark Malone».
Clark cercò di trovare l’ispirazione guardandosi intorno, ma vide solo le pareti della sua stanza tappezzate di un marrone pallido che la madre aveva scelto senza neanche consultarlo. Sopra quelle pareti, a suo parere squallide, c’erano molti scaffali dove Clark appoggiava di tutto, cose che trovava in giro che lo colpivano o oggetti per ricordarsi della sua infanzia.
Cercò qualcosa che lo potesse ispirare per il suo racconto, ma nulla, solo vecchi peluche polverosi che ormai non toccava più da anni. Ne vide uno in particolare, che si ricordò essere stato il suo preferito. Era un orsetto fatto di pezza, occhi di vetro e delle zampe particolarmente pelose rispetto al resto del corpo, ma non riuscì a ricordare il nome che gli aveva dato. Pensò che almeno il suo vecchio amico d’infanzia, con cui nella sua mente aveva passato numerose avventure, lo avrebbe aiutato con la sua immaginazione, ma niente.
Ne rimase molto deluso, si domandò come mai la fantasia che quel gioco gli forniva anni prima ora era scomparsa; ci pensò a lungo, poi dopo averlo guardato nei suoi piccoli occhi di vetro e dopo averlo pulito della polvere che gli si era concentrata sul naso cucito, lo ripose sullo scaffale che ospitava molti altri dei suoi ricordi. Guardò l’orologio appeso sulla parete, era rosso e i numeri erano a caratteri romani, si rese conto che erano passate diverse ore e che era ormai ora di cenare. Uscì dalla sua stanza e scese in cucina. Era solo in casa, i genitori erano fuori, quindi cominciò a farsi un panino che divorò. Guardò un po’ di TV e successivamente tornò in camera sua. Volse lo sguardo per un attimo su quel foglio bianco sulla scrivania con sopra la penna stilografica che il nonno gli aveva regalato: gli parve di aver avuto una straordinaria idea, ma gli uscì subito dalla mente e, sconsolato, cercò riposo tra le soffici coperte e il morbido cuscino.

La sveglia suonava, era un rumore odioso e assillante che penetrava nelle orecchie del povero Clark che sicuramente avrebbe voluto rimanere tra le braccia di Morfeo. Fu costretto a svegliarsi. Si mise una felpa, faceva ancora troppo freddo per essere nel mese di marzo, si sciacquò la faccia e scese a fare colazione. Era domenica mattina e la giornata si prospettava noiosa e troppo lunga. Seduto a tavola a leggere le notizie del giorno c’era suo padre, che lo guardò con uno sguardo ancora assopito e lo salutò pigramente, non perché non gli volesse bene, ma perché era il massimo che potesse esprimere. Ai fornelli c’era sua madre, la quale lo baciò sulla guancia, che egli si pulì immediatamente, senza però farsi notare. Clark mangiò i cereali con il latte come tutte le mattine, tornò in camera, si lavò e si vestì. Quel giorno non aveva intenzione di fare niente, ma c’era ancora il pensiero del racconto che lo assillava. Così decise di riprovarci, ma ancora niente, l’ispirazione non c’era.

Per consolarsi cercò di immaginare gli scrittori di cui aveva letto i libri a scuola, come Stevenson, Verne o Salgari, alle prese con il suo stesso problema di non riuscire a scrivere neanche le prime righe di un breve racconto. Si immaginò Stevenson che lottava con le parole come gli stessi suoi personaggi nell’Isola del tesoro facevano con altri pirati. Oppure Salgari che nel mezzo di quelle lunghe descrizioni, che era solito fare e che Clark tanto odiava, si interrompeva sconsolato poiché non gli veniva la parola adeguata. Ripensare a tutti i libri che aveva letto gliene fece tornare uno alla mente. Era un libro che lo aveva colpito profondamente e dopo tanti anni ne ricordava ancora il titolo e lo scrittore: Inkheart di Cornelia Funke.
Lo cercò a lungo sui suoi grossi scaffali, ma non lo trovò. Gli dispiacque, ma cercò di ignorare la perdita di quel libro. Non si ricordava precisamente tutta la storia, ma si ricordava la protagonista del romanzo, e in particolare una sua peculiare caratteristica: le piaceva leggere. Questa ragazzina di quattordici anni aveva un’enorme passione per la lettura.
Clark si ricordò di come lo avevano colpito le descrizioni della protagonista mentre teneva in mano un libro. La ragazzina del romanzo vedeva il leggere come un’avventura nuova da scoprire ogni volta. Poi si ricordò che si era particolarmente esaltato e immedesimato quando lesse il modo in cui la protagonista guardava semplicemente le prime pagine o la copertina di un libro. L’autrice la descriveva come emozionata quando annusava l’odore peculiare che emanavano le pagine di un libro, e Clark ripensò a quando anche lui faceva la stessa cosa.
Quest’ultimo si ricordò di aver provato anche un pizzico di invidia nel leggere le pagine di quel racconto, poiché era affascinato dall’idea di leggere un libro con quella passione, ma non trovava mai la voglia necessaria. Così all’improvviso come folgorato, a Clark balenò un’idea incredibile per la sua storia, avrebbe parlato di com’era per lui l’esperienza di leggere.
Prese in mano la penna stilografica e come d’incanto i pensieri si trasformarono in parole. Clark raccontò di come si sentiva nell’aprire un libro. Provava un piacere immenso, l’odore della carta delle pagine e l’idea di conoscere le avventure e i segreti di persone a lui ignote. Parlò di come era soddisfatto nel chiudere l’ultima pagina di un libro, non per essersi tolto un peso, ma per aver conosciuto i segreti più intimi di uno scrittore, le emozioni che questo sentiva e provava nell’immaginare scenari inventati, che, dopo tutto non erano completamente finti, ma a parere di Clark giacevano nell’animo dello scrittore e spingevano per essere fatti uscire. Emozioni, parole, odio, amore, tutto racchiuso in poche parole che Clark leggeva con passione, facendone tesoro e non abbandonandole al vento come per una forma di rispetto nei confronti di chi le aveva scritte e di chi aveva avuto l’istinto di condividerle con altri.
Scrisse di come anche minime parole scritte in un libro che poco dopo si sarebbe dimenticato, gli rimanevano attaccate, e lo perseguitavano scavando nella sua mente, costringendolo a pensarci e a ragionarci. Ripensò e scrisse di altri libri che aveva letto, ricordandosi di come quelle storie lo avevano appassionato e lo avevano fatto ritornare bambino, come faceva il suo peluche di pezza, il quale, come le parole, lo portava in mondi diversi, colmi di avventure, persone e pericoli. Si rese conto che tutte quelle moltitudini di emozioni e pensieri erano evocate da solo poche pagine e che cose a lui apparentemente molto più vicine non riuscivano minimamente a stimolarlo, e scivolavano via.
Preso dal raccontare le sue emozioni nello scrivere, Clark si rese conto che erano passate oramai diverse ore. Chiuse la penna stilografica del nonno, ripose i fogli del suo racconto in uno dei suoi scaffali sulla parete color marrone spento, accese l’abatjour vicino al suo letto e, preso un libro dalla scrivania, cominciò a leggere.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010