Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

La mia musa

Come ogni giorno mi svegliai alle quattro di mattina; mi alzai dal letto con la testa pesante e le mani formicolanti e mi avviai verso il bagno: mi specchiai e mi guardai in faccia.
«Sono davvero uno straccio.» pensai e entrai nel box della doccia per svegliarmi del tutto.
Uscii dal bagno, andai in cucina a prepararmi la colazione e mi accesi una sigaretta; la fumai in pochi minuti, mangiai e mi vestii per uscire. Come sempre in bicicletta andai al bar davanti al Flower’s Kingdom e mi sedetti al solito tavolo, ordinai una cioccolata alla menta e attesi il suo arrivo.
Lei giunse col sorgere del sole e si sedette su una panchina; guardava dritto davanti a sé: con lo sguardo assente, incurante dei passanti, delle automobili e delle biciclette. Presi un blocco da disegno e iniziai a farle uno schizzo: ritrassi il suo volto angelico, i suoi occhi e i suoi capelli rosso fuoco; spesso mi ero avvicinato a lei, ma invano: ero invisibile ai suoi occhi; avevo provato a parlarle, ma lei non mi aveva mai risposto, quindi mi ero inventato la sua storia. Credevo fosse una ragazza straniera, giunta nella grande metropoli per cercare se stessa; la sua ricerca era durata mesi e l’aveva portata da me: io potevo renderla felice e bellissima, attraverso la mia arte e lei sarebbe diventata la mia modella.
Iniziai a dipingere, disegnare e scolpire le sue fattezze, mi stavo innamorando di lei, delle sue mani, delle sue lunghe e affusolate dita, dei suoi occhi che cambiavano a seconda della luce: col sole del mattino tendevano al grigio, con la luce del mezzogiorno erano cerulei e col tramonto erano blu tendenti al nero. Lei era diventata una persona importante nella mia vita, anche se non la conoscevo: lei era diventata la mia musa.
Spesso pensavo a lei e inconsapevolmente la disegnavo a rapidi tratti: la curva del collo, le lentiggini sparse sulle sue guance e la piccola cicatrice vicino all’occhio. Il mio più grande amico e ammiratore, nonché gallerista di grande fama era rimasto stupito dalla mia attenta riproduzione di quei dettagli, quindi un giorno mi convocò nel suo studio e con gli occhi che brillavano dalla felicità mi disse che avrebbe allestito una mostra con le mie opere. Entusiasta lo abbracciai: il mio sogno si stava avverando, ma un senso di tristezza e dolore calò sul mio animo; non me ne preoccupai e tornai a casa a preparare il materiale per la mostra.
Passarono i giorni e lavorai incessantemente: ogni ora, minuto e secondo era prezioso, non dovevo assolutamente distrarmi, ero a un passo dalla meta. Dormivo, mangiavo e lavoravo come un automa, senza un attimo di pausa e svago: in quei giorni non tornai al bar e non vidi la mia musa ispiratrice. Ne soffrii molto, ma pensai che presto l’avrei invitata alla mostra.
Lo feci una sera, poco prima dell’inaugurazione: come al solito la mia musa era seduta sulla panchina. Mi sedetti accanto a lei e iniziai a parlarle, senza ottenere risposta, ma prima di andarmene le lasciai l’invito e le sorrisi, pregandola di presentarsi: dopotutto lei era la mia musa.
Arrivò la sera della mostra: si sarebbe tenuta nelle grandi sale del palazzo reale. Tutto splendeva alla luce dei candelabri, i pavimenti in parquet brillavano da quanto erano lustri e gli invitati erano magnificamente vestiti; tutto era perfetto. Non appena arrivai venni accecato dai flash delle macchine fotografiche e venni sommerso dalla marea di domande che le persone mi ponevano in continuazione: risposi.
La mia mostra era stata ispirata da una donna, ripetevo sorridente, come inebriato da tanta folla «Lei è diventata la mia musa!». Poi mi compiacqui nel mostrare i più piccoli particolari di ogni opera passando dai nebulosi carboncini, che la raffiguravano come un essere inafferrabile, alle grandi tele a olio, che con pennellate materiche rendevano quasi palpabile la sua figura, ai pastelli delicati e sfumati, finanche agli acquarelli evanescenti. Nella mostra comparivano anche i primi scatti fotografici che le avevo fatto, riguardandoli mi ritornarono in mente quelle profumate mattine primaverili, quei luminosi mezzogiorni estivi, quelle nebbiose e umide sere autunnali, quelle fredde e silenziose notti invernali in cui lei era presente: costante fissa della mia vita, essere incorporeo e corporeo, tenebroso e ombroso, solitario nel silenzio assoluto.
Osservando quello sguardo penetrante mi chiesi: «Chi sei? Dove sei?».
Quando una voce femminile mi distolse dai miei pensieri: «Certo che l’artista ha davvero talento, coglie i minimi particolari: lo scintillio degli occhi, il barbaglio ramato della chioma e il candore della carnagione. Mi sembra quasi di conoscerla questa straniera. Mi attrae, incanta col suo sguardo».
«Ha assolutamente ragione,» dissi voltandomi «volevo mostrare a tutti…» le parole vennero meno: davanti a me c’era la mia musa.
«Suvvia, non mi guardi così, se no arrossisco» disse sorridendomi, prima di nascondere il suo meraviglioso sorriso dietro un ventaglio ricamato «Vorrebbe mostrarmi ogni singola opera, sono curiosa di sapere che cosa vi ha così tanto attirato della mia persona, signor?».
«Alexander Apollonium, per gli amici Alex e per gli artisti il nuovo Apollo».
«Siete un uomo dai tanti nomi, mio caro artista» mi provocò.
«È vero, solo che non so il vostro».
«Il mio nome è Eris Mnemosynem e sono la sua più grande ammiratrice» mi rispose.
Fui travolto da mille emozioni: felicità, stupore, gioia e amore colmarono il mio animo. La presi per mano e lei me la strinse forte.
«Voglio portarti in un posto speciale», dissi senza distogliere lo sguardo dal fondo dei suoi occhi.
«Davvero?!?» e la condussi via, lontano dalla musica, dai suoni, dalle voci e dagli sguardi di alcuni invitati, che incuriositi, ma anche preoccupati mi chiesero dove stessi andando da solo, lontano da tutti e dalla mia mostra; alle loro domande li guardai stupito «Ma come non vedete la mia musa, Eris?» chiesi, ma loro negarono la presenza di una donna accanto a me e mi chiedevano se stessi bene o se avessi bisogno di qualcosa; arrabbiato e ferito mi allontanai e porgendo la mano alla mia musa, uscii definitivamente dall’esposizione.
La portai al solito bar e ci sedemmo al mio solito tavolo, ordinammo due cioccolate alla menta, poi iniziammo a parlare. Era strano vederla di fronte a me e sentire la sua voce, spesso il mio sguardo si volgeva a quella panchina che in quel momento era vuota e la tristezza calò sul mio cuore. Si era fatto tardi, quindi uscimmo dal bar mano nella mano: guardai per un’ultima volta la panchina ma la trovai occupata.
Vi era seduta una ragazza coi capelli rossi: pareva il ritratto di Eris.
Abbandonai la mano di Eris e portandomela sugli occhi chiesi in un sussurro «Chi sei tu veramente?».
«Non sono forse la tua musa?».
«Dimmi com’è possibile che ti trovi qui al mio fianco e là solitaria sulla panchina nello stesso tempo?». Le indicai la ragazza seduta all’altro capo della strada.
«Non c’è nessuna ragazza sulla panchina» disse Eris.
La guardai trasecolato: sembravano due gocce d’acqua eppure una sola era quella vera…
«Non esiste nessuna ragazza sulla panchina» quasi sibilò Eris.
«Dimmi dove ci siamo visti per la prima volta?» sbottai in preda all’angoscia.
Non rispose.
«Cosa ti dissi e quale fu la mia prima opera che mi ispirasti?».
Non rispose. La nausea montava.
«Mi stai ingannando?» urlai.
Silenzio; l’assurdo sommergeva ogni cosa. Corsi via: volevo raggiungere l’altro capo della strada, la panchina agognata della mia musa.
E fu allora che mi voltai a guardare in faccia la realtà: Eris non esisteva veramente, ma solo nella mia immaginazione. Probabilmente avevo così tanto desiderato conoscere la mia musa, che le avevo dato corpo; la mia mente mi aveva ingannato, dando forma ai miei desideri più reconditi, che come tenebre scivolarono via col far del giorno.
Eris sparì in un attimo e mi trovai da solo in mezzo alla strada a urlare al nulla, poi mi voltai verso la panchina, ma dei fari di un’automobile mi accecarono, facendomi distogliere gli occhi dalla mia musa, che come un’ombra si dissolse nel nero più profondo.
Mi svegliai per un suono fastidioso e scoprii di trovarmi in una stanza sconosciuta: ero sdraiato su un letto semplice e bianco, candide lenzuola mi coprivano il corpo e la luce fievole del sole illuminava la stanza.
«Dove sono?» pensai e provai a muovermi, ma un dolore acuto mi colpì gli arti. Voltai lentamente e attentamente la testa e vidi accanto a me un monitor ospedaliero che segnalava con un rumore ritmato il battito del mio cuore.
«Perché mi trovo in ospedale? Cosa mi è successo?» pensai, cercando di riportare alla mente gli ultimi momenti prima del buio assoluto in cui mi trovavo: ricordavo l’inaugurazione della mostra, Eris, il bar, il litigio in strada e l’incidente, l’ultimo ricordo che avevo era il volto di una ragazza coi capelli rossi, poi più niente.
Chiusi gli occhi assaporai il sapore amaro delle lacrime. «È solo colpa mia, mi sono lasciato trascinare dalle emozioni e ora mi trovo in ospedale. Il mio desiderio di conoscerla per poco non mi ha ucciso; sono stato precipitoso. Un folle… e ora mi trovo qui. Chissà quanto tempo è passato?».
La porta si aprì con un cigolio ed entrò qualcuno: socchiudendo gli occhi vidi un’infermiera che maneggiava il monitor, e una ragazza che si sedette accanto a me, prendendomi la mano.
«Allora Amy, come sta il nostro artista?» lei non rispose «Si deve svegliare a breve. Va bene vi lascio soli. Certo che ha avuto davvero fortuna che ci fossi tu vicino al luogo dell’incidente.» continuò l’infermiera, uscendo dalla stanza.
Il silenzio calò su di noi e sempre con gli occhi socchiusi notai come quella sconosciuta si fosse portata la mia mano sulla guancia, mentre chiudeva gli occhi, poi si addormentò. Aprii del tutto gli occhi e vegliai il suo sonno, osservandola attentamente: non era possibile che quella ragazza fosse la mia musa, ma dovevo ricredermi.
Iniziai ad accarezzarle la guancia, poi appoggiai l’altra mano sui suoi crespi capelli: lei si svegliò all’improvviso e mi guardò con stupore.
«Ciao Amy» dissi e lei in risposta mi abbracciò; lacrime mi bagnarono il volto e io strinsi più a me quella ragazza minuta.
Eravamo abbracciati così per non so quanto, quando entrò nella stanza un dottore. «Amy, quante volte ti ho detto di non entrare qui» l’ammonì usando il linguaggio dei segni e le parole. «Scusi mia figlia, la prego. Si è interessata molto al vostro caso, dopotutto lei è qui grazie a mia figlia» disse rivolgendosi a me.
Gli sorrisi, mentre sciolsi l’abbraccio con Amy. «Mi scusi lei invece. Non credevo fosse sua figlia» dissi arrossendo.
«Non si preoccupi, mai credevo di potervi rivolgere la parola» lo guardai incuriosito «Grazie a lei mia figlia è felice e in molti la riconoscono nella modella delle sue opere. Lei non sa quanto questo sia stato importante per mia figlia, signor Apollonium, non è vero Amy?».
«La prego mi chiami Alex. Anzi sono io a dovervi ringraziare, perché grazie a voi sono vivo e posso conoscere la mia musa ispiratrice» dissi sorridendo, nonostante il dolore al petto.
«Oh non si preoccupi adesso vediamo come sono i suoi parametri vitali. Mmm… Vedo che è tutto a posto, quindi la potremo dimettere a breve».
Amy tirò la manica del dottore e notai il suo sguardo angoscioso.
«Ti prego non guardarmi così, sai bene che non posso occuparmi di lui, ho altri pazienti. Poi sta guarendo, quindi non ha bisogno di me» disse il dottore scusandosi, poi mi guardò.
«Ha ragione, mi può dimettere in qualsiasi momento, mi sento molto meglio» dissi.
«Non si preoccupi per ora la sposteremo di reparto, vieni Amy lasciamolo riposare» disse il dottore uscendo dalla stanza insieme a sua figlia.
In poco tempo mi addormentai e sognai la mia musa.
Erano passati pochi mesi dal mio incidente e avevo ripreso a lavorare; il padre di Amy mi aveva prescritto delle cure e delle sessioni di fisioterapia che seguivo regolarmente. Lo vedevo spesso in ospedale e gli raccontavo dei miei progressi nel lavoro e nell’apprendimento del linguaggio dei segni.
Da quando ho conosciuto Amy ho preso delle lezioni e sto imparando molto velocemente; riuscivamo a intavolare un discorso complesso e profondo senza difficoltà.
In poco tempo ci eravamo innamorati: lei era la mia anima gemella e io la sua; ci completavamo in tutto: io la raffiguravo nelle mie opere e lei mi dedicava poesie d’amore.
Così vivemmo insieme, io e la mia musa.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010