Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Lettera a mio padre

«Uno due tre, quattro cinque sei, un saltino e sono sulla gamba di costei»… eccola la tua filastrocca, quella che mi cantavi quando ero piccola.
La ripeto sempre nella mia mente, per annullare i miei pensieri e le mie emozioni. Spesso al telefono mi chiedi come sto: «Bene» rispondo sempre, inevitabilmente, ormai senza nemmeno più pensarci, meccanicamente, come ingranaggi di una macchina, o come un attore che segue il suo copione.
Vuoi sapere come mi sento in realtà?
Immagina di trovarti in una stanza senza nessuna porta e nessuna finestra, le pareti grigie, imbottite, come quelle delle celle di isolamento degli ospedali psichiatrici. In mezzo alla stanza un enorme specchio, nel quale vedi tutte le tue imperfezioni Improvvisamente sullo specchio appaiono delle scritte: «brutta… grassa… fai schifo».
Nello specchio vedi il tuo riflesso, ma lui si muove autonomamente, si abbuffa, vomita, si uccide di esercizi, piange. Alzando lo sguardo sulle pareti noti che ci sono appese diverse foto in bianco e nero di volti: ti fissano, ti giudicano, le loro parole di scherno ti rimbombano nella testa.
«Non sei brava a fare niente… perché non studi un po’… hahah ma ti sei vista?! sei enorme!».
I loro sguardi accusatori ti fanno sentire come una piccola formica in un barattolo di vetro. Ecco come mi sento io, ecco come sto papà L’angoscia non mi lascia mai, mi soffoca, mi stringe allo stomaco, mi piega le gambe Voglio restare nella mia stanza, nella mia prigione, voglio passare inosservata, un fantasma che ripete la sua cantilena senza fine, come in un girone infernale.
La scuola papà… una ripetizione ossessiva di nozioni vecchie, di cose fatte da persone ormai passate, defunte, scomparse.
È importante, lo so, ma ormai è ora di ammetterlo: io vado male a scuola, o per meglio dire vado da un’altra parte, perennemente fuori tema, vedo le cose in un altro modo, come quando durante le spiegazioni ho lo sguardo perso nel vuoto perché magari mi sono fermata su una cosa particolare che ha detto la professoressa, ci rifletto, immagino, e non riesco più a seguire la sua spiegazione. Sono disattenta, o per meglio dire presto attenzione a quello che gli altri lascerebbero da parte, quelle cose che per loro sono ovvie, prive di significato, o magari troppo complicate Con le relazioni sociali sono quasi peggio che a scuola; gli altri mi considerano strana, mi autoescludo, mi ritiro in me stessa come le lumache quando gli tocchi le antenne, del resto cosa posso condividere, la preoccupazione più grande dei miei coetanei è quella di avere un telefono appena uscito, di avere centinaia di amici su facebook.
I ragazzi non mi interessano, con loro non ho alcun tipo di contatto, ho sempre paura di essere usata, presa in giro, ferita. Insomma sono sola, perennemente sola, e la colpa, senza ombra di dubbio è tua papà. Quando avevo qualche incertezza chiedevo a te, le tue risposte per me erano la verità, la direzione da seguire, insomma mi hai plasmata, con i tuoi: «I voti non sono importanti, quello che impari è importante» e ancora: «Devi discernere tra conoscenza e comprensione, l’una è superficiale, l’altra è profonda, è tua, indelebile».
Per ogni cosa mi spiegavi, mi annoiavi, ma intanto gettavi in me un seme che germogliava e cresceva. Insomma, mi hai rovinata. Io non capisco la società e la società non capisce me. Mi sento fuori dalla società.
Poi te ne sei andato, mi hai lasciata sola, senza guida, come i tre Re Magi senza la stella cometa, come gli ebrei senza Mosè. Te ne sei andato, proprio quando ti ho fatto la domanda più importante, quella che ancora mi assilla. Non mi hai risposto, o peggio, mi hai risposto con la tua solita schiettezza, ma sarebbe stato meglio che tu mi avessi mentito, o almeno avessi omesso. Ti sembra normale che a 9 anni io avessi già visto film come: Strane storie, Il senso della vita, Il pianeta selvaggio, Tempi moderni, Il monello e Ratataplan, di cui poi parlavo a scuola e i miei compagni mi guardavano con un punto interrogativo stampato in faccia? Oppure quando mi regalasti Frankenstein dicendomi che era un romanzo d’amore, o ancora Cime tempestose che gettò in me una tristezza infinita, così tu per rimediare mi facesti leggere L’uomo più importante del pleistocene.
Il cinema e i libri ci hanno sempre accomunato, guardavo e leggevo voracemente ciò che mi passavi, come un leone che non mangia da giorni, inghiottivo i tuoi libri uno dopo l’altro, mi aiutavano a capirti meglio, volevo essere più simile e te, pensare, ragionare con te, riuscire a cogliere gli stessi significati che coglievi tu, ti ammiravo, tantissimo, immaginavo il giorno nel quale avrei porto io un libro a te dicendoti che era molto bello, e che da questo libro avresti capito molte cose.
Eri il mio unico amico, l’unico con cui potessi parlare delle uniche cose che sapevo.
Poi te ne sei andato, ho iniziato a provare un odio profondo per quei libri che mi avevano insegnato ogni cosa che sapevo, quelle cose di cui non potevo discutere con nessuno… tu non c’eri più…
«Che senso ha vivere?» ti chiesi, e tu senza scomporti mi rispondesti: «Che sappia io, nessuno».
Quella risposta fece nascere in me centinaia di domande, di angosce, di paranoie, che dovevo tenermi per me, tu non c’eri più… non ti avrei mai potuto chiedere come mai allora vivessimo, perché dovessimo morire, e come mai la vita è solo una, come mai hai una sola opportunità, se sbagli non puoi riprovarci.
Così senza di te ho fatto i miei primi passi nell’adolescenza. I libri per me non esistevano più, così provai a placare il mio dolore interiore tagliandomi, come facevano molte ragazze della mia età per moda o per sofferenza, ma non servì.
Così mi gettai sul cibo, mi consolava, ma in altri momenti mi faceva sentire terribilmente in colpa. Logicamente tendo a ingrassare, passo da diete di poche calorie al giorno a momenti di voracità estrema, sempre in bilico tra il voler esser bella per gli altri o fregarmene.
«Lo devi fare per te stessa, non per gli altri, devi piacerti, devi volerti bene» mi dicesti una volta.
Ma papà, io non mi piaccio, non mi voglio bene.
Un’ altra volta mi spiegasti che la vita è fantastica, ma che bisogna vivere, non sopravvivere o vegetare. Quello che ci frega è la morte. Mi hai più volte consigliato di apprendere il più possibile, e trovare un lavoro che mi piaccia per non sacrificare parte della vita come inevitabile tributo alla società. Come al solito sarebbe stato meglio non mi avessi detto niente, libera di dimenticare nelle faccende giornaliere i problemi irrisolvibili.
Mi hai inviato libri, cercando quella vicinanza che ormai non c’è più.
Cerchi il contatto che non abbiamo e insisti che una vita è troppo poco e che con i racconti ne possiamo avere infinite. Mi ricordo i romanzi da cui non potevo staccare gli occhi, la frenesia di tornare a casa per stendermi sul divano e continuare a leggere.
Ma ora basta è tanto che non leggo più niente, né voglio leggere.
Voglio solo tornare indietro nella mia stanza e ripetere la mia cantilena «uno due tre, quattro cinque sei…». Altre parole vengono però ora a confondere la mia determinazione: «Quando il coniglio trasse un orologio dal taschino…» mi concentro e ricomincio: «Un saltino e sono sulla gamba di costei».
Risento la tua voce calda come quando ero bambina e prima di addormentarmi mi leggevi un libro, la sento dentro e quella felicità che pensavo persa si affaccia e mi fa lacrimare gli occhi, mi gonfia il petto: «Un istante dopo, Alice scivolava giù correndogli appresso, senza pensare a come avrebbe fatto poi per uscirne».
Voglio uscire dalla stanza che mi sono creata attorno, mi siedo per terra, con il libro tra le mani, le voci delle fotografie appese sui muri si fanno più lontane, come un vecchio ricordo che ormai sta scomparendo, il libro mi risucchia.
«Alice cominciava a sentirsi assai stanca di sedere sul poggetto accanto a sua sorella».
Non è più la tua voce papà, ora è la mia. Sono accanto ad Alice, sento il canto degli uccellini e il vento primaverile che mi scompiglia i capelli. Riesco anche a sentire la noia, che viene subito vinta dalla curiosità non appena vedo il Coniglio Bianco.
In quel momento mi rendo conto che sono fuori dalla mia stanza, fuori dalla mia prigione, in quel momento capisco che potrò essere chi voglio, fare quello che voglio e avere la vita che voglio.
Io papà, scelgo di avere più vite possibili.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010