Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
18ª edizione - (2015)

Sette secondi

Vorrei iniziare dicendo che era una notte buia e tempestosa, ma, per quanto mi rammarichi di non rientrare nella categoria tradizionalistica, non posso farlo: mentirei.
Era una calda notte d’estate quando la mente di Damiano fu attraversata e deformata da un pensiero cupo, colmo di tristezza, preludio di un’esistenza inquieta. L’atmosfera era serena, non era certo fatta per essere raccontata: solitamente ai fulmini piace irrompere dopo aver annunciato il loro imminente arrivo, eppure al buio che corse quel dì piacque giocare a nascondersi.
Fu la carta a bruciare ancora, a rimescolare i suoi effetti con fare innocente che la rendeva una perfetta insospettata e una complice apprezzata; un finale, una marcia trionfale dell’autore, una manciata di polvere negli occhi, tutto fuori da ogni canone, persino oltre il diverso per lui.
Non riuscendo a cogliere anche solo ombre di diletto tra le pagine sanguinanti di inchiostro, ecco arrovellarsi per capriccio la sua fragile mente curiosa in cerca di utopie fantasma. Morire di morte vana, senza scudo, perso senza sapere quante siano le stelle del cielo non era il giusto punto per un compagno d’avventura ritrovato a ogni inizio delle innumerevoli frasi. Infuriato con la storia, sicuro d’essere colto da sdegno assennato, Damiano decise di vincere lo scuro: cambiare senza neanche scriverlo, immaginare e salvare il piccolo mondo dal suo inventore frustrato che gli aveva rubato la gloria.
Cominciò a scegliere davanti ai vari incroci, guardando oltre le siepi del labirinto che non erano più poi così alte. L’inchiostro colava filtrato solo da nozioni grammaticali e vicoli ciechi; scorrevano frangenti di gioia fioca che poi cadevano ancora nella lunga corsa per il titolo di scrittore, per un’insegna tutta in bianco e nero.
Ma lui quel pianoforte lo sapeva suonare e faceva scivolare le dita sicuro delle incertezze. Il mondo accoglieva meno convinto le narrazioni, stringendo solo gli estremi dei suoi pensieri. A inventare e costruire armonie rotte dalle varie peripezie pareva fosse un gioco, ma quando poi arrivava a quel muro poco mancava che sentisse «Dì viva il duce!» e il sibilo di un proiettile: aveva iniziato a scrivere per sfuggire al finale che non era riuscito ad accettare, quindi trovarsi di fronte all’arduo compito di pensarne uno per la sua storia significava sfidare gli autori che lo avevano istruito a questo mestiere, una condanna. Ma arrendersi sarebbe stato peggio.
E allora i suoi punti non conobbero morte o pazzia secondo un principio tanto semplice quanto complicato: ideava l’opposto di ciò che non lo aveva soddisfatto, tutto il contrario della fine gloriosa ma ingiusta del personaggio disilluso. Per le pagine che accoglievano i suoi racconti imbrattati di realismo e incastrati in contesti verosimili quella era una nota stonata, il sistema temperato equabile con cui era accordato il pianoforte si era fracassato su quell’adattamento poco calzante. Finali che sconvolgevano le righe e lo irritavano popolavano le sue notti insonni che riportavano sempre e solo a quella sera, quando si fermò senza perché e senza asilo, ospite indesiderato e straniero esigente presso la porta di un autore affermato.
I rami, trascinati dal vento in una danza malinconica, cambiavano andamento al ritmo delle stagioni, ispiravano il susseguirsi dei momenti ideali raccolti e appassiti tra le righe forsennate. Il tempo non aveva rivali, avrebbe vinto ad ogni modo la sua gara solitaria, ma correva lo stesso, senza cadere, né sostare, né rallentare.
Damiano tentò di guardare i petali e di non vedere il fiore della scrittura, lasciando scivolare le parole e dando posto ai dubbi tra anfratti scavati dal dolore. Soffiava forte il vento quando decise di spezzare le catene e convincersi di un nuovo assioma: narrare il vero, nemmeno il verosimile lo avrebbe più sfiorato.
Macchiato di superbia, mantenne l’orgoglio trasformando l’errore senza cancellarlo. Sfilacciò i tessuti degli avvenimenti, colse le testimonianze dei pochi superstiti, sciolse il passato al fuoco della vita in genere. Reinventare il suo stile scardinando i principi che aveva sempre alimentato pareva fosse tanto, ma non fu il suo concetto a dilaniare la serenità quanto la sua concezione: Damiano era ormai un viandante per le vie della narrativa perché non aveva accettato dapprima finali e poi cambiamenti necessari alla, seppur debole e fin troppo costruita, sopravvivenza in quel mondo senza confini.
Il vento intanto bussava ancora, periodicamente, alla sua porta; cullava le barche in qualche molo lontano, trascinava la rena per qualche strada di campagna, spostava le nubi con lentezza relativa e quasi oziosa, strappava cappelli a pedoni distratti con un cipiglio ironico, sospirava sui tetti e sembrava così presente che si sarebbe potuto pensare, dimenticando astronomia e affini, che spingesse persino la Terra nel suo moto ordinario, quieto e monotono. Un giorno, mentre il cielo era di un azzurro reso dinamico solo dal pensiero costante e sicuro che la vita stesse ancora passando come sempre, Damiano si fermò per una viuzza così angusta che pareva volesse stringergli i pensieri fino a romperli; cadeva ogni tanto qualche sguardo distratto ma nessuno la attraversava più a quell’ora, volteggiavano solo foglie di colori a tratti curiosi come possono essere quelli offerti dalla natura, rimasugli incerti dell’autunno sfiorito. Ancora una volta pensò ai suoi passi tra le righe; dal momento in cui aveva scelto di non essere un burattino, qualcuno gli aveva attaccato dei fili alle membra e alla mente soprattutto, poteva vedere l’autore del gesto: non era un burattinaio, erano le sue decisioni, era il suo orgoglio, la sua superbia, la sua debolezza ma anche le spiccate capacità.
Perso tra gli anfratti della sua memoria, non guardava più intorno a sé, tutto intento a risolvere dilemmi che lui stesso aveva creato. Muoveva pochi passi, tornava indietro, si soffermava con lo sguardo su qualcosa di troppo astratto per accorgersi del paesaggio, a tratti si smarriva, pestava un piede quando lo sfiorava il ricordo di un errore.
La catena del rivivere fu spezzata dal suono delle campane della chiesa che segnavano al paese la suddivisione del tempo, giusto per ricordare, ancora una volta, che non lo si può controllare; Damiano fu scosso per un attimo, chinò il capo e gettò una rapida occhiata all’orologio, tra i più antichi complici di illusione, e dopo aver considerato l’orario, decise di riprendere a giocare a nascondino con se stesso. Ma quando levò lo sguardo gli si parò davanti un quadro futurista: la viuzza era improvvisamente popolata da voci e rumori che giravano attorno a lui e che lo lasciavano attonito, inchiodato al suolo con una coscienza assente.
Guardava quello spettacolo dove a turno le creature di fronte a lui leggevano l’ultima pagina di un libro, lo richiudevano e si confrontavano confusamente, poi riprendevano a vivere qualche scena: pareva un’opera di metateatro. Dovette rendersi conto ben presto che si trovava di fronte ai personaggi che tante volte aveva manipolato nella sua tormentata vita da scrittore.
Mentre cercava di capire a quale storia, a quale filo li aveva appesi, ognuno lo cercava e lo costringeva a guardare la propria rappresentazione; era un marasma di sentimenti che lo attanagliava con presa sempre più salda.
Ora non si sentiva più il vento, non si scorgevano i colori dell’autunno, il cielo era caduto nel vuoto dell’indifferenza: c’era un palcoscenico improvvisato che aveva soppiantato il paesaggio. Anche la sorpresa di aver distrutto il confine tra sogno e realtà era svanita, d’altra parte era abituato a conciliare quegli estremi giocando con le sue storie. Il mondo attorno si era come chiuso per far da spettatore a un dramma satiresco improvvisato e le nuvole erano rotolate verso l’America degli attori e verso l’Africa degli scrittori.
Accorgendosi di essere inciampato negli ostacoli che lui stesso aveva congegnato per gli altri disillusi del loro essere, Damiano cercò di indagare oltre l’apparenza di quell’estratto di follia ironica. Tutte le volte che credeva d’essere in un vicolo cieco, non lo era; quando pensava di controllare i personaggi, era solo uno schiavo della corrente in cui si era gettato.
Ora, davanti a lui, maestri di vita senza corso e di morte senza mai ultimo respiro lo mettevano davanti al quadro che aveva dipinto distrattamente, muovendo il pennello con una disinvoltura mirata solo a nascondere l’inquietudine. Aveva chiesto alla tristezza il significato di logorare anime e visi, aveva interrotto bruscamente il tragitto pacifico della serenità docile e fragile, aveva conquistato le vette della felicità sostando solo per pochi attimi, aveva perso le redini della mente davanti alla paura spavalda e sarcastica. Adesso ciò che credeva fissato sulle pagine per sempre lo inchiodava per liberarlo: rimediare a uno sbaglio, frenare l’orgoglio e incarnare l’anima rivestendola secondo il suo essere era la via che il cartello animato gli indicava. Con la testa tra le mani, era rimasto come sospeso tra passato e futuro, mentre il suo presente superava l’indecisione e la nostalgia.
Quando decise istintivamente di affrontare di nuovo la visione di ciò che stava capovolgendo i suoi percorsi, si trovò a osservare una viuzza tranquilla, protagonista di un idillio mai cantato. Nemmeno le foglie parevano essersi spostate. Il vento era cessato. Il cielo era immobile.
Incredulo, in cerca di certezze, guardò l’orologio: segnava lo stesso orario di prima, solo la lancetta più minuta si era spostata in avanti di circa sette secondi. Quanto basta, forse, a sfogliare un libro.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010