Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

Carpe Vitam
di Silvia Quaranta
Finalista

02:01 a.m.
Il tempo era relativo.
Il fatto che avesse scassinato la porta di servizio di uno dei più grandi e importanti musei al mondo, era legato alla relatività del tempo. Semplicemente.
Non era colpa sua. Aveva sempre cercato di essere puntuale, o al massimo di arrivare con cinque minuti di ritardo (che poi le sembrava la stessa cosa). Ma non ci riusciva.
Per quanto si sforzasse, i minuti si trasformavano in ore e lei non arrivava mai in tempo.
Carpe diem. Cosa significava esattamente? Qual era l’attimo giusto da cogliere?
Così, investendosi di licenza poetica, aveva trasformato quel motto senza alcun senso in Carpe vitam. Cogli la vita. Accogli con te tutti gli attimi insignificanti e fondamentali.
D’altronde aveva sempre creduto che i secondi, i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni fossero un modo per sminuire il tempo. Intrappolarlo e minimizzarlo perché troppo grande per noi fragili esseri umani.
Tutte le unità di misura per controllare e calcolare il tempo erano solo una comoda convenzione dell’uomo per gestire qualcosa che andava oltre le sue capacità.
Partendo da questo presupposto, il fatto che fosse arrivata con ben nove ore di ritardo dopo l’orario di chiusura, era un dettaglio alquanto irrilevante.
Camminò furtiva per i corridoi del museo, guidata da un dépliant che aveva recuperato alla reception, diretta verso una meta precisa.
Con la piccola torcia che teneva in mano illuminava i propri passi e quando arrivò nella sala 8B, puntò la luce sui muri, cercando l’oggetto che tanto bramava.
Quando i suoi occhi furono in grado di abituarsi alla luce soffusa e misero a fuoco il dipinto, sentì il cuore traboccare di emozioni talmente forti da temere di non riuscire a gestirle.
Allungò la mano e sfiorò le parole sulla targhetta d’oro. Le ripeté a bassa voce.
«Salvador Dalì, La persistenza della memoria 1931».
Quanta verità in una sola frase, in una tela di colori a olio.
Gli occhi scorrevano da una parte all’altra del dipinto, divorando ingordi ogni minimo particolare.
Se l’avessero arrestata, ne sarebbe valsa la pena.
La bellezza vale sempre la pena.
Degli orologi sciolti. Esisteva modo migliore per raccontare l’evanescenza del tempo? Che non si ferma davanti a nessuno. Che senza la minima traccia di malvagità, fa in modo che le cose cambino, si evolvano, scompaiano o crescano. Che mette alla prova la forza dei sentimenti e delle intenzioni.
La luce del dipinto non era cupa, non era tetra. Perché al contrario della gente comune, forse Dalì non vedeva il tempo come un nemico, come qualcosa da combattere. La verità era che più cercavi di contrastarlo, più spazzava via la felicità. Più ne avevi paura, più ti divorava l’anima. Lentamente, senza che tu te ne accorgessi.
Lei lo vedeva semplicemente come un’altra costante della vita. Un qualcosa che ti accompagna lungo il tuo percorso, che cura le ferite o le fa bruciare ininterrottamente a seconda della tua pazienza.
È vero che il tempo cura le ferite e che rimargina le cicatrici. Tutto dipende da noi, se lasciamo a esso la possibilità di farlo, senza lottare per mantenere il nostro passato nel presente.
Il tempo dona felicità, perché il futuro è un qualcosa che in un modo o in un altro ti stravolge la vita. Il futuro potrebbe essere qualsiasi cosa, darti quello che per così tanto hai cercato senza successo.
Quando era piccola, aveva la letto una poesia. Le parole con cui il poeta, di cui non ricordava il nome, aveva descritto il tempo l’avevano destabilizzata. Lo aveva definito «Reo». Colpevole. Di cosa?
Noi esseri umani abbiamo la brutta e vergognosa abitudine di attribuire al mondo che ci circonda caratteristiche nostre. Non siamo capaci di vedere le cose in modo obbiettivo, di concedere a esse di differenziarsi da noi.
L’ignoranza voluta e non ci spaventa. Noi dobbiamo conoscere, per poi stravolgere la vera natura di ciò che ci circonda. Esiste solo il nostro punto di vista, il nostro mondo emotivo. Non concediamo a niente di essere diverso da noi.
Anche la diversità è un qualcosa che ci ha sempre fatto sentire impotenti. Per questo ci omologhiamo, rinnegando chi siamo davvero. La normalità, la consuetudine, sono strade più semplici da battere. Se non rischi, se non provi, se non ti rendi vulnerabile, difficilmente rimani ferito o deluso. Ma sarai mai davvero felice?
Lei era sempre stata diversa, e le era sempre piaciuto. Era sempre stata se stessa e nessuno l’aveva mai compresa.
Certo, era attraente, trasudava fascino e intelligenza in un mondo dove nessuno era in grado di pensare con la propria testa. Ma poi la gente rimaneva intimorita da lei. Da tutto quel coraggio di non nascondere il suo vero essere.
Così, dopo averla spolpata fino alle ossa, quando non potevano più prendersi nulla, la lasciavano ferita e delusa. A brandelli.
Pensare divenne faticoso, così si sedette sulla moquette grigia del pavimento, senza smettere nemmeno per un attimo di guardare il dipinto.
L’arte è in grado di comunicare senza parole, abbattendo il muro di qualsiasi linguaggio. Perché spesso le parole sono superflue, insipide e vuote. I sentimenti invece sono sempre prepotenti, ti divorano in una maniera piacevole facendoti sentire vivo.
Dietro le parole ci si nasconde, ci si protegge, si mente. L’arte è chiara, cristallina.
Lei guardava e sentiva. Non avrebbe raccontato quel momento a nessuno, poiché lo avrebbe rovinato. Lo avrebbe custodito gelosamente dentro di sé, tornando con la mente a quella notte ogni volta che il mondo intorno a lei avrebbe cercato di sopraffarla.
Avrebbe tanto voluto accarezzare i contorni dei disegni, toccare la tela elastica e tesa, sfiorare la cornice. Ma temeva che facendolo tutto si sarebbe dissolto davanti ai suoi occhi liquidi e sinceri, occhi fragili e bisognosi di conforto.
La complessità delle emozioni che stava provando le stavano facendo dimenticare gesti elementari e fondamentali, come respirare o sbattere le ciglia. Ma anche se le mancava l’aria e gli occhi le bruciavano, rimase impassibile.
Il primo sole dell’alba le accarezzò il viso, con i suoi raggi flebili e tiepidi. Solo a quel punto prese un profondo respiro, gli occhi come incastonati in quel quadro.
La testa cominciava a pesarle e gli occhi a dare i primi segni di cedimento.
A quel punto avrebbe dovuto alzarsi e tornare a casa, stendersi sul divano e riposare per qualche ora. Ma non poteva lasciare quel posto surreale, non ora che lo aveva trovato.
Si lasciò cadere a terra, con leggerezza e chiuse gli occhi stanchi. Una sola lacrima sfuggì al suo controllo e le scivolò lungo il viso. Sorrise piano, cercando di non disturbare quel momento di pace.
Si addormentò in quel museo, scomodamente adagiata sul pavimento, davanti a un oggetto che le avrebbe cambiato la vita per sempre.
Era arrivata in orario per la prima volta in vita sua. Non aveva sbagliato il tempismo, era nel momento giusto e nel posto adatto. O forse no, ma poco le importava.
Si addormentò dopo aver guardato un’ultima volta il dipinto, scaldata da una nuova luce colma di serenità.
05:07 a.m.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010