Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

Essenziale
di An Qi Zhao
Finalista

Quando Principe scende dal treno ancora sbuffante della fatica del viaggio, alla stazione di Lione-Perrache non trova cartelloni o festoni ad attendere il suo arrivo, né una mano protesa nel favore di reggergli la leggera valigia di cuoio che stringe nella mano destra, o voci che chiamino il suo nome. Solo la foschia familiare di una Lione grigia e anziana che, gelida, lo avvolge in un abbraccio di indifferente benvenuto.
Non è deluso. Non è un sospiro quello sbuffo d’aria calda che gli sfugge rapido dalla bocca, mentre si avvia verso la fermata del bus; solo fiato condensato, si dice, mentre stringe le spalle e affonda le mani nude nelle tasche bucate del cappotto. Fa freddo, forse troppo per essere Natale, nel cercare conforto nelle maglie larghe della sciarpa verde chiaro che gli avvolge il viso pallido, acceso solo da due chiazze rosse. Quelle che, nonostante gli anni e le rughe che adesso gli solcano il viso, più affilato e severo – adulto –, non hanno mai abbandonato le sue guance e i suoi lineamenti.
Scivola tra le ombre sfocate di persone che quella mattina di quel giorno festivo non dovrebbero percorrere i marciapiedi grigi di una città addormentata, ma i pavimenti caldi di una casa che si sta svegliando. Ombre come lui.
Si convince, allora, che quel freddo che sente nelle ossa e che come dita nude gli carezza le caviglie tra un passo e l’altro, si attenuerà a casa. Se lo ripete di fermata in fermata e non pensa a come quel gelo lo abbia accompagnato fin dal mattino e nelle ore del viaggio da Parigi fino a Lione. Perché è più semplice credere in una bugia, che affrontare la verità. Quindi mente, mente finché può, mentre i tasti dell’ascensore si illuminano di piano in piano e i passi lo conducono di fronte a una porta che non ha il coraggio di toccare, ancora meno di aprire. L’orologio segna i secondi che rimane sul pianerottolo, immobile nella paura di bussare. Fissa la maniglia, i segni delle dita che ne sporcano il colore, solo un opaco ricordo dell’oro brillante che descrive le immagini della sua memoria.
Poi, la porta cede, arretra come intimidita dal suo sguardo insistente e una fronte ampia ne sostituisce la vista. Una fronte ampia accartocciata su una calvizie prematura e una smorfia rigida.
«Tu che ci fai qui?»
Principe vorrebbe dirsi stupito della rudezza della domanda, ma conosce bene lo Zio: un uomo che odia perdere tempo e che dall’età di cinque anni – quando un bimbo è ormai pronto a crescere, a maturare – gli ripete che è necessario eliminare tutto ciò che è superfluo, per risparmiare l’essenziale. Dopo tanti anni, Principe non ha ancora compreso il segreto dell’essenzialità: una volta credeva fossero le formiche d’estate, a dodici anni pensava fosse il sorriso della sua compagna di classe, più tardi erano i biglietti di un concerto a cui non poteva assolutamente mancare. Adesso, nemmeno lo sa più, cos’è essenziale per il Principe di oggi. Sicuramente non quel silenzio scomodo e distratto a cui cerca di rimediare presto – non perdere tempo, giusto? Ma lo Zio decide di non concedergli l’opportunità e taglia la conversazione.
«Lascia perdere. Sono solo passato per gli auguri» borbotta e poi i tacchetti delle scarpe eleganti echeggiano sulle scale di marmo, perché l’ascensore ha ripreso a scendere e sarebbe superfluo aspettarne il ritorno.
«Ciao anche a te, Zio» sussurra Principe, passandosi le dita fredde sul capo. Guarda la porta, lo spiraglio lasciato aperto e i suoi piedi che tentano i primi passi. Non ha più scuse, adesso. Le bugie hanno le gambe corte, ma non per questo non possono camminare.
Come entra, pensa a come tutto sia rimasto lo stesso: dalla luce arancione che illumina il corridoio principale, la cassapanca su cui riposano le vesti degli ospiti, alle tre miniature decorative di alberi che descrivono le pareti e gli ombrelli riposti all’angolo. Anche gli odori e i vapori provenienti dalla cucina, il brusio della televisione in salotto e le chiacchiere dei parenti. Come tutto sia uguale e diverso allo stesso tempo. C’è profumo di casa e di mancanza.
«Piccolo!»
Non si era accorto di essere arrivato fino in salotto. Cugina Narcisse, seduta sul divano, lo desta dai suoi pensieri. Principe le sorride timido e osserva che anche quel giorno veste di giallo.
«Mi disse che ero come le giunchiglie: fiorivo prima della primavera stessa», così ricorda quello storico fidanzato che un giorno la baciava e quello dopo partiva e non tornava. Da allora, cugina Narcisse si veste sempre di giallo.
«Ciao, Narcisse» saluta Principe e poi con occhi curiosi coglie una zazzera rossa cercare rifugio tra le pieghe ampie della gonna giallo zafferano.
«E ciao anche te, Piccola Volpe».
Due grandi occhi scuri rispondono con sguardo diffidente. Principe sorride di sottecchi. Vorrebbe avvicinarsi e carezzargli la testa, ma decide di restare fermo. Non sia mai che lo spaventi e fugga.
Anche cugina Narcisse ride con le rughe agli angoli degli occhi. «Louis è un po’ timido» spiega, toccandogli con mano leggera le orecchie a sventola. «Ma a scuola è il più bravo di tutti. Vero, Lou? Per questo ha pochi amici, ma è solo invidia. E lo sai, io con quella brutta bestia ho sempre avuto un gran da fare! Pensa che all’età di undici anni…»
Principe la interrompe subito, perché cugina Narcisse ama suo figlio tanto quanto le piace parlare di sé. «Dov’è mamma?» chiede, guardando già il corridoio – porta destra.
Cugina Narcisse si zittisce tutto d’un tratto. Sembra offendersi, ma poi una piccola mano le strattona la gonna e con un sorriso aiuta il bimbo ad arrampicarsi sul suo grembo. Lo stringe forte al petto e Principe è contento che adesso sia lui il suo primo motivo di orgoglio.
«Nello studio, come sempre. Ha appena ricevuto lo zio e hanno parlato ancora della casa» sospira piano, un velo di stanchezza e tristezza nell’ultima sillaba.
Principe capisce che gli auguri possono essere essenziali se coinvolgono una casa e un testamento. Annuisce e la ringrazia, «Vado a salutarla» dice soltanto.
Cugina Narcisse non ha nulla da ridire questa volta.
Il brusio della televisione e la risata del bimbo lo seguono. Bussa e aspetta il permesso di entrare come di sua abitudine. Ed è strano sentire la voce di Mamma rispondere.
«Avanti».
Mamma è seduta alla scrivania. I capelli grigi, raccolti in un elegante chignon, brillano alla luce pallida di un sole invernale. Le mani le nascondono il viso. Sono segnate dal tempo in ogni vena che ne percorre la pelle, eppure Principe è certo di poterne sentire una nostalgica delicatezza quando gli circonda il collo e lo attira a sé per un abbraccio.
«Ciao, Mamma» risponde Principe tra i nodi dei suoi capelli. Sempre profumo di casa e di mancanza.
«Antoine» sussurra piano contro la sua spalla.
Non si ricordava fosse così bassa, piccola, fragile. Con attenzione, scioglie l’abbraccio e la guarda. Vorrebbe dire di vedere la stessa donna che ogni notte accendeva una candela per proteggerlo dal buio, come fosse l’unico lampione di un’unica città. Ma quella luce si è spenta e Principe non si è impegnato a proteggerla dal vento.
«Sei qui, adesso, ma prima?»
«Sono qui» ripete. «Scusa il ritardo».
Mamma sorride, ma non dice nulla. È un ritardo che forse non si può perdonare.
Antoine lo capisce quando Mamma gli stringe forte la mano, prima di lasciarla.
È solo, solo con una rosa che graffia e fa male. Si guarda le dita, ma non c’è sangue che ne sporca la pelle. Non ci sono spine. Solo un dolore che penetra la carne, scava le ossa e brucia gli occhi. Lacrime calde scivolano su guance rosse, bagnano colpe sporche che non possono essere lavate via, che rimangono come spine sotto pelle.
«Non indugiare, è irritante. Hai deciso di partire e ora vattene» erano state le sue ultime parole, prima di chiudere per sempre la porta di casa.
Si sono lasciati con un silenzio che sapeva di orgoglio ferito e grida soffocate. Spalle voltate in direzioni opposte e decisioni diverse, inconciliabili un tempo, o forse determinate solo dall’età e da un carattere difficile che condividevano. Sciocchezze forse, eppure erano valsi i loro ultimi anni insieme.
Adesso Antoine ha solo una rosa che appassirà su pietra fredda, delle scuse e un ritardo che non può perdonarsi. Un ritardo che è costato il loro ultimo saluto.
«Ti voglio bene, Papà. E tu non l’hai saputo per colpa mia».
Forse era questo l’essenziale.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010