Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

Garofani rossi
di Alessandro Viapiana
Finalista

Cos’è amore?
Io non lo so

Quando penso a lui
Vedo amore nei suoi occhi
Ecco, cos’è amore?
Me lo chiedi, non lo so
Mi basta guardare nei suoi occhi

Vedo un uomo, vedo amore
Non esiste, ma impera
Non è stato, ma ha vissuto
Non sarà, ma gioirà

Ecco, cos’è amore?
Non chiedermelo,
Non risponderò
Davvero non lo so

Così iniziava quel breve racconto insanguinato. Un racconto ancora intriso di violenza. Un morto, era quel racconto. Ma che stai pensando imbecille? Vuoi sapere chi è, mio carissimo esimio reverendissimo lettore, il morto? Il morto sono io.

Visto che non parli, e questo mi aggrada, non sai quanto, adesso ti spiego che cosa voglio dirti. Insomma hai presente la primavera, quando nascono i primi amori e tutti sono felici, e tutti Baglioni e Battisti, e tutti si sentono in dovere di essere melensi più di un libro d’appendice? Ecco, scordatelo. Non fa al caso nostro. La mia storia inizia in una assolata giornata d’estate siciliana. Minchia che caldo. Non credo davvero che possa essere descritto un caldo tanto esasperante senza incorrere in censure. Ambiente descritto. Prendi un ragazzino fragile che se lo tocchi si frantuma in mille pezzi, prendi un boss, sguardo che ti ammazza e ti taglia appena ti si mette difronte. Per un vigliacco scherzo del destino questi due erano figlio e padre.

Ma il legame era solo di cognome. Il fetuso aveva messo incinta una ragazza di buona famiglia; a far figli non ci vuole un’intelligenza fina, non vorrei fare lezioni di biologia, insomma, ce simu capiti. La ragazza era morta, dissero, di parto; il figlio era stato cresciuto dai nonni materni, i soldi del padre avevano fatto in modo che non gli mancasse nenti. Ne era venuto fuori un principino. Davvero poi di intelligenza straordinaria, i libri la sua vita, leggeva notte e giorno, gioia di nonno. Quel cognome però, un’onta. Tutti credevano che i suoi successi scolastici fossero da rimandare al cognome, o meglio, alla lupara facile di suo padre. Magari la lupara non servì mai, tutto meritatissimo.

Ma veniamo al punto. Il ragazzo aveva un problema.
Minchia che risate. Insomma aveva un «disordine interiore che lo portava verso la strada della perversione e delle scabrosità» che ottenebrava menti di alti prelati tra i pensieri nelle loro omelie, istruiti aristocratici benpensanti e pure i più gretti mafiosi tra cui suo padre. Il ragazzo «amava un ragazzo e non le ragazze» disse al padre.

Uno schiaffo la risposta.
Non era più figlio suo. Aveva fatto bene a uccidere sua madre, troppo ribelle. Avrebbe dovuto uccidere entrambi.

La sua stanza una roccaforte, i libri i suoi cavalieri. Come sempre la sua risposta fu nei libri. Quando lo schiaffo finì di friggere sul viso e nell’anima, cominciò a risuonare di nuovo quello che leggeva nella sua mente. Quel giorno avrà letto una decina di libri. I nonni ormai vecchi, cercavano di capire cosa succedesse, ma poveri cristi perché fare soffrire pure loro, perché farli scantare senza motivo.

Il ragazzo era fragile. Cuore di leone. Il padre adesso sta in carcere: ergastolo.
Ma io chi sono vi chiederete? Io amo i garofani rossi, quelli rosso sangue. Diciamo che vivo a stretto contatto con il padre. Vesto la divisa tutti i giorni e tutti i giorni vedo quella faccia da carogna. Fetuso di merda. Sei omicidi. Non nescirà nemmeno se dovesse comparire il buon Dio in persona. Per uno strano caso anch’io leggo, leggo molto. Pure il fetuso legge, io ci presto i libri che prendo i prestito alla biblioteca civica. Anche oggi gli ritiro il libro che devo riconsegnare. Qualcosa però quando entrai in biblioteca non mi quadrava, mi sentivo osservato. Mi appostai dietro uno scaffale. Cazzo! Uno dei picciotti legati alla cosca non prende il libro che ho appena lasciato e si mette a leggere come un forsennato? Finito, lo getta. Se ne va. Lo prendo.

Scoperchio un inferno.
Tra le pagine, in codice, u-c-c-i-d-e-r-e i-l s-a-n-g-u-e o-g-g-i a-l-l-e-1-5.
Il figlio! Corro. Un occhio all’orologio, mancano venti minuti alle tre. Chiamo il commissariato e urlo; sarebbe stato troppo tardi però aspettarli. Mi getto con la macchina sul corso, suono il clacson, questo minchia di traffico! Arrivo sotto il palazzo, civico 36, il portone si apre ed esce il ragazzo; scivolo sui sedili, apro lo sportello e mi metto a correre sul marciapiede. Una moto si avvicina, un braccio teso, un boato, mi getto, in un istante mi accorgo di avere tra le mani ancora il libro.
Cazzo che male. Sento caldo. Buio.

***

Adesso riempi quel buco nel mio petto con garofani rossi, pensaci tu ai miei figli, pensaci tu al ragazzo, che possa vivere e amare liberamente, pensaci tu alla mia Ninetta, asciuga le sue lacrime.
Un libro ha salvato una vita, un libro ne ha uccisa un’altra. Non piangere, ama.
Sulla mia tomba, caro lettore, garofani rossi.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010