Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
11ª edizione - (2008)

Riflessa nel mondo

I pomeriggi passavano per inerzia. Guardavo la prof parlare in inglese, mi concentravo sui suoni che emetteva e che mi affascinavano.  Non ascoltavo veramente ciò che diceva. Mi perdevo nelle parole che uscivano dalla sua bocca. Le vedevo galleggiare nell'aria come bollicine, che dopo pochi secondi scomparivano e ritornavano nel luogo da cui erano venute. Dal nulla. Dal nulla di ciò che stava dicendo.
 Guardavo fuori dalla finestra. Il sole d'aprile sfocato. La luce filtrava tra ogni foglia di ogni albero. Il vento ululava, magicamente, ed entrava nella linfa delle piante, attraverso i rami, con la sua forza, con la sua voglia, con la sua essenza movimentata.
 La scuola era silenziosa, si sentiva soltanto il rumore del vento sui vetri. Il lento, e poi veloce, muoversi delle foglie primaverili. Il riflesso del sole tiepido sulle finestre della torre di fronte, era più rumoroso del corridoio, intravisto dalla porta, dei passi della gente, delle parole della prof, dei miei pensieri fosforescenti, di me.
 Di me. Quadrifoglio, disperso tra tanti trifogli. Quadrifoglio che nessuno troverà mai. Che non porterà mai fortuna a nessuno.
 In quei pomeriggi, in cui mi rendevo conto di quanto fossi meravigliosamente fragile, credevo in me. Credevo in ciò che ero, in ciò che sarei potuta essere, se solo l'avessi voluto un po' di più. In quei pomeriggi in cui tutto era pronto a morire, in cui tutto era sul punto di finire, e scoppiare silenziosamente, come quelle bollicine... pomeriggi in cui non esistevano sicurezze e punti d'appoggio... quei pomeriggi in cui ero una zattera in mezzo all'oceano di un altro pianeta... ecco in quei pomeriggi io mi purificavo.
 Mi vedevo immersa in una luce diversa dal solito, brillante, luminescente e cangiante. Una tranquillità favolosa mi scendeva nel cuore, e mi sentivo leggera. Senza radici le mie foglie, i miei rami si muovevano fluttuando nel vento, ballavano con l'aria e suonavano una melodia dolce e silenziosa. E allora capivo che tutto quel mio desiderio di essere la protagonista assoluta della mia vita, non esisteva. Non era necessario.
 Forse il mio compito era semplicemente quello di fare da narratrice.
 Nelle recite scolastiche il narratore legge all'inizio, quando tutti i bimbi sono dietro alle quinte e rumorosamente si pestano i piedi e si vestono aiutati dalle maestre, e urlano e ridono emozionati.
 E il narratore si deve far forza, tra i suoni acuti dei compagni, tra le risate sommesse dei genitori di fronte a lui, divertiti, e incuranti di qualsiasi piccola emozione dell'animo dei propri figli, forse perché non sanno nemmeno più, provarle.
 Lui, piccolo scricciolo, legge e recita quella che è la sua piccola parte.
 In pochi realmente lo ascoltano.
 Parlerà poco durante la recita. Forse qualche piccolo intervento tra una scena e l'altra. Forse alla fine. Lui è quello che deve raccontare la fine allegra e felice di quelli che sul palco ci sono stati veramente. Lui non è protagonista. Gli applausi non sono direttamente rivolti a lui. Lui se ne sta a metà tra la tenda e gli scalini, semi nascosto, in ombra. Lui parla da solo.
 Impara a memoria la sua parte, lunga e piena di parole difficili. È il più bravo di tutti. È quello che non ha bisogno di trasformarsi in un personaggio colorato e truccato per avere una personalità. È il più bravo di tutti, ma rimane nascosto nell'angolo, a guardare gli altri, dal buio. È il più bravo di tutti, senza di lui la storia sarebbe incomprensibile, ma questo non lo si capisce mai.
 Perché lui c'è sempre e comunque. E finché possediamo una cosa, non ci rendiamo mai veramente conto di quanto sia essenziale.
 Lui, umile nella sua grandezza, racconta tutto e non chiede nient'altro se non quello di finire, di chiudere la bocca e di nascondersi. Nessuno lo fa sentire importante. Nessuno gli dice la verità. È il migliore. Ma è un segreto. Un segreto chiuso, serrato da qualche parte, che nessuno svelerà mai.
 La gloria ce l'hanno solo i bimbi carini e simpatici, che fanno da protagonisti. Ma non importa. Arriverà il suo turno. Ma arriverà? Ma è veramente così importante? Poi quel bimbo crescerà, diventerà adolescente, e le cose non cambieranno.
 C'è chi nasce attore. C'è chi nasce narratore. È inutile tentare di cambiare destino. Ognuno ha il proprio ruolo. E nessuno deve essere condannato per questo.
 Come i genitori. Sono adulti. Sono cresciuti. Non è per cattiveria, davvero non si ricordano più i dolci pensierini dei bimbi. Che vedono tutto grande, enorme.
 E allora perché no? Allora perché aspettarsi di salire su un palco che tanto non fa per noi? In quei pomeriggi sentivo che non avevo bisogno di applausi, di riconoscimenti, di risate.
 Raccontare, questo è il mio compito. Perché senza di me la storia non ha senso. Perché senza di me non trovi il significato delle cose. Perché senza di me non scopri i segreti dietro gli occhi di quell'attore solitario che fa il cattivo.
 Ed ecco che il narratore diventa il primo protagonista. Il più bravo di tutti.
 In quei pomeriggi capivo.
 Mi sentivo piena di vita. E sentivo davvero il sangue scorrere nelle vene, come quella linfa negli alberi. Era come accendere una luce. Era come ricordare qualcosa che non hai mai vissuto veramente. Era come perdersi tra la folla. Guardavo le persone muoversi intorno a me. E io ferma tra loro. Osservavo il loro viso. Osservavo i loro occhi, e cercavo dentro di loro qualcosa da raccontare. Qualcosa di cui parlare. E allora ogni piccolo gesto diventava importante.
 Siamo così pieni di voglie, di desideri, di parole mute, di sguardi silenziosi e profondi. Abbiamo tutti bisogno di tutti, e non lo ammettiamo, e dobbiamo per forza sentirci in qualche modo diversi. Siamo tutti soli. Ma potremmo non esserlo.
 In quei pomeriggi ardeva un fuoco caldo dentro me, ed era come ritornare indietro, in un soleggiato pomeriggio di luglio. Un quaderno e una penna in mano. Non credo di sapere perfettamente come funzionino queste cose. Non credo che riuscirò mai a capire l'importanza di quel gesto, così insignificante, all'epoca, così piccolo. Appoggiai la penna sul foglio. Scrissi. Scrissi per la prima volta in vita mia.
 Diventando narratrice della mia vita stessa.

Una bambina raccoglieva margherite in un prato. Una bambina che non aveva paura di niente. E doveva avere paura di tutto. Una bambina saliva su una collina. Rimaneva lì ore, a guardare dritta davanti a sé.
 Immagazzinava dentro emozioni che non si sarebbero mai più cancellate. Si aggrappavano lì, da qualche parte nella sua mente. Creavano ampolle contenenti puro succo di verità. Una verità celata, dietro un muro di pregiudizi malvagi e scontati.
 Ma la bimba non poteva saperlo. Era sola contro il mondo.
 Un giorno quella bambina diventò grande. E il mondo intorno a lei divenne ancora più oscuro e la circondò, soffocandola, lasciandola sola in un labirinto di nebbia. E lei vagava, presa in giro, abbandonata. Ma la nebbia non le faceva paura. La affascinava. Lei poteva perdersi senza dover tornare mai a casa. Senza dover dare giustificazioni per ogni suo gesto. Senza riuscire a raggiungere più nessuna meta. Non doveva più lottare contro nessuno, per poi avere la delusione amara della sconfitta. Aveva una scusa. Era la nebbia.
 Ma poi un raggio di sole illuminò la via d'uscita. E la nebbia lentamente si diradò. E intorno a lei non rimase altro che prato.
 Scoprì palazzi, treni, gatti, gabbiani, mari, alberi. E quella collina. Dove un giorno aveva trovato se stessa riflessa nel mondo.
 Intorno a sé, nascosta da quella nebbia c'era sempre e solo stata vita. E bellezza. E storie da raccontare. Storie dimenticate. Enormi segreti di ogni sorriso.
 E quella bambina ormai cresciuta si ritrovò di nuovo riflessa nel mondo. Un mondo che l'aveva trattata male, insultata ed esiliata. E lei non aveva fatto altro che lasciare che tutto accadesse. Che tutto le scivolasse addosso come quella nebbia densa.
 Ma ora c'è qualcosa da raccontare. C'è qualcosa da dire. C'è qualcosa per cui vale la pena continuare a sognare. Continuare a vivere.
 E questa è la mia danza. Questa è la mia emozione. Questo è il mio segno.
 Una pagina si gira. E poi un'altra, e un'altra ancora. Senza muovermi, ogni pagina scivola via e si sposta, da sola. E mi porta lontano. E mi insegna tutto. E si aprono porte davanti a me, continuamente.
 Se potessi buttarmi a capofitto in un baratro nero lo farei. Se potessi tuffarmi in uno dei libri che leggo lo farei. Solo per sentirsi alzare più alto il mio grido: “Io esisto!”.
 Ed esisto per ogni persona. Per penetrare in loro.
 La solitudine ti spezza dentro. Ma io non ho paura. Perché io sono capace di smettere di sentirla.
 Chiudere gli occhi aspettando di dimenticare chi sono. Diventare un fantasma pieno di ricordi tristi. E poi dondolare su un'altalena dove viaggiare con la mente, in altre realtà lontane. Trovare tesori e regalare perle alle persone accanto a me. Questa è la mia vita. Questa è la gioia di un attimo. Questa è la promessa che feci a me stessa di nascosto quel giorno di luglio. È una promessa che non posso permettermi di non mantenere. Perché rappresenta tutto per me. E a volte magari mi dimentico. A volte la mia testa gira, e gira, e gira, senza più fermarsi. E ho le vertigini. Cado. Un tonfo sordo. Un suono continuo, che mi tormenta e non mi lascia dormire.
 Ci sono state notti di disperazione. Notti in cui vedevo soltanto ombre malvagie intorno a me, sbraitarmi addosso. E io avevo paura. Una paura tremenda, di quelle che ti serrano il cuore.
 Non desideravo altro che sparire. Chiudere gli occhi. Raccogliermi. Racchiudermi in me. E basta. Volevo che il sole si accendesse, che non si spegnesse mai più. Aspettavo che ritornasse a salvarmi, come quella volta, dalla nebbia. Ma tutto quello che facevo era restare lì immobile. Nel silenzio della mia stanza provavo ad ascoltare, il lento, solenne e fiero battito del mio cuore.
 Nel silenzio di quelle notti provavo a tranquillizzarmi.
 Nel silenzio di quegli attimi sentivo le gocce calde delle mie lacrime solcarmi il viso.
 Nel silenzio della mia vita, provavo a sperare, provavo a credere in me stessa, provavo ad amarmi, provavo a ridere, provavo a non sentirmi persa, provavo ad amare.
 Ma il mio amore è soltanto un morso ad una mela. Il mio amore è soltanto sentire una canzone. E devo aggrapparmi a tutto ciò che è Amore.
 Il mio amore non è eterno. Il mio amore è un attimo. Veloce, ma infinito.
 E so che quelle notti ritorneranno. So che la paura non è finita. Ma ho trovato il mio amore. Ho bevuto il succo di verità delle ampolle che un giorno misi da parte, per il momento decisivo della mia esistenza. Che è questo. È un continuo saltellare tra ciò che sono e ciò che vorrei essere. Tra sole e luna. Tra realtà e universo parallelo.
 Ma basta poco, basta così poco per essere felice. Scrivendo. Leggendo. Parlando di te, che mi raccogli, che mi tendi la mano. Di te che scappi. Di te che ritorni. Di un mattino. Di un giardino.
 La mia vita sono i tre puntini di sospensione alla fine di una frase. Puntini che ti lasciano salire scale infinite di esperienze ignote.
 Tre puntini che ti lasciano semplicemente vivere. Ti permettono di correre dietro a ogni morbida piuma spostata da un soffio di vento.
 E io non sono mai stata più pronta a volare di adesso. Sono qua, sto per partire per un viaggio che non finirà. Come quel bambino narrerò una storia. Forse la mia. Forse la tua. Darò la giusta importanza a qualunque persona che incontrerò, così come faccio con le parole che scorrono ora sotto i miei occhi. Non voglio applausi o riconoscimenti. Chiedo soltanto di non perdermi mai più in quell'oceano di nebbia. I miei occhi, la mia anima, resteranno spalancati pronti a captare ogni singolo, minuscolo, meraviglioso respiro di questo mondo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010