Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
19ª edizione - (2016)

Dentro il Lager: il dovere della testimonianza e la forza della vita

Buongiorno, cari ragazzi, il mio nome è Maria Yung. Eccomi qui, sono trascorsi ormai circa settant’anni da quando il mio incubo si è interrotto, settanta lunghi anni, quanto tempo è trascorso da allora! Sono qui per raccontarvi la mia storia, la mia vita trascorsa nei campi di concentramento. Sono nata in Germania, nel 1922, a Colonia, dove sono cresciuta con mia madre e mia sorella, poco più grande di me. Mio padre, un operaio di una nota fabbrica, lavorava tutto il giorno, e non lo vedevo quasi mai: faceva di tutto per non farci mancare niente, amavo mio padre. Nel 1933 si cominciarono a diffondere le leggi razziali e noi ebrei, considerati dai nazisti diversi e «da sterminare», fummo allontanati da ogni genere di rapporto con la società. A quell’epoca ero ancora bambina, avevo solo dieci anni, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo e, specialmente, il perché di tutto questo, domande in parte ancora oggi irrisolte. Il 12 settembre 1937 venni espulsa dalla scuola, fu uno dei giorni più brutti della mia vita, o almeno così credevo; invece no, ce ne furono altri molto più devastanti. Qualche anno dopo lo scoppio della guerra, nell’ottobre 1943, delle guardie delle SS vennero nel ghetto, dove ormai eravamo stati trasferiti, a casa nostra, per parlare con mio padre: ricordo che era terrorizzato, non capiva neanche lui, in verità, le ragioni profonde per cui venissimo considerati, anche dalla gente comune, fuorilegge.
Ci arrestarono e ci portarono con loro; dopo averci condotti alla stazione ferroviaria, ci fecero salire sui treni adibiti al trasporto di merci e animali: ci consideravano oggetti. Il viaggio durò circa sei o sette giorni; avevo paura, paura di non riuscire a sopravvivere: eravamo senza acqua, cibo, aria, senza neanche un luogo per i bisogni. Arrivammo ad Auschwitz, il luogo più terribile che abbia mai visto, ancora oggi. All’ingresso del campo c’era una scritta, crudele per coloro che conoscevano la verità all’interno di quelle mura: «Benvenuti ad Auschwitz».
Entrammo e fummo divisi, gli uomini separati dalle donne; ci dissero che dovevano solo registrarci e che avremmo rivisto la sera i nostri cari. Non dimenticherò mai quel momento. Ero entrata nel campo camminando, mano nella mano con mio padre, da un lato, e mia sorella dall’altro, legata anche lei a mia madre. Fu così che, per obbedire a quel regolamento mostruoso, fui costretta a separarmi per sempre da mio papà, dovetti lasciare la sua mano forte, ma, allo stesso tempo, delicata, sfiorandola un’ultima volta… Ero disperata, piangevo come non avevo mai pianto in vita mia e ricordo nitidamente, proprio come fosse ora, l’immagine del volto di mio padre in lacrime: lui, sempre pronto a difenderci, in quel momento si sentiva impotente. Strinse forte me e mia sorella, ci diede una ultima carezza in viso, poi, baciò mia madre sulla fronte: un bacio tenero e delicato, e, con un filo di voce, ci disse: «Mi dispiace, perdonatemi».
Lo vidi allontanarsi nella nebbia così, per sempre. Sentii un vuoto dentro, una sensazione bruttissima, che non augurerei mai a nessuno di voi; siete tanto innocenti, avete un viso così sereno, non potete immaginare cosa fummo costretti a passare in quei campi. Rimasi lì per due anni. Ebbi la fortuna di capitare nello stesso dormitorio con mia madre e mia sorella: durante il giorno mamma lavorava alle macchine, costruiva piombini, e noi piccole, invece, eravamo addette alla cucina, eravamo state molto fortunate. I ricordi piu’ dolorosi che conservo sono sicuramente le frustate, gli schiaffi, le beffe delle guardie nei nostri confronti. Nell’autunno del 1944 mia madre cominciò ad ammalarsi e, negli ultimi mesi, fu trasferita ai lavori forzati; io e mia sorella prendevamo di nascosto un po di cibo in più per darglielo la sera tardi, quando tornava dalle fabbriche.
Si avvicinava il 1945.Alcune donne parlavano di una possibile liberazione, nel campo filtrava voce che gli Americani e i Russi fossero alle porte e ci avrebbero salvati e io ci credevo, ci volevo credere, speravo, costringevo mia madre a essere forte, ma questo non servì a molto, perché, pochi mesi dopo, ci fu la visita: chiamavano così il controllo, quel controllo dal quale pochi si salvavano, ma mia madre non fu una dei salvati. Il ricordo di questa nuova e dolorosissima perdita è tale che lo conservo dentro di me e non riesco a parlarne. L’ultimo mese fummo trasportati da una città all’altra, si sentiva sempre più tensione: i Russi coi loro eserciti erano vicini stavano per vincere la guerra, dicevano alcune ragazze, e infatti così fu. Il 27 gennaio 1945, tra i bombardamenti, furono aperte le porte del campo. Non riuscivo a crederci, per così tanto tempo avevo desiderato questo momento e ora si stava avverando. Io e mia sorella ci salvammo, uscimmo vittoriose da quell’incubo che continua a perseguitarci e che, ancora oggi, è nostro compagno. Ragazzi, vi sto raccontando questa storia, non per rattristarvi, ma perché è giusto che voi sappiate: bisogna ricordare, si deve portare avanti la mia e l’esperienza di tutti coloro che hanno vissuto tutto questo, sopravvissuti e non. Non si può accantonare nel dimenticatoio la Storia: milioni di persone innocenti mandate alle camere a gas, bruciate vive nei forni crematori, c’è troppo dolore in queste vicende. L’unica cosa che voglio dirvi è che dovete essere forti, smettetela di dire davanti ai vostri problemi: «Non ce la faccio», «Basta», «Non sono abbastanza forte»! Siamo tutti forti, dobbiamo soltanto trovare il motivo valido per lottare. Io ho lottato per la vita e ce l’ho fatta.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010