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19ª edizione - (2016)

Lingua Franca

Chi siamo davvero, nel profondo?
È una domanda che mi sono sempre chiesto. Forse tutti, anche senza saperlo, ce lo chiediamo.
Ricordo quante volte me lo hanno chiesto.
Sono cresciuto in una villaggio di frontiera, tra i domini sotto gli Asburgo e quelli sotto i Borbone
I viaggiatori mi chiedevano sempre se la terra che calpestavano era francese o tedesca. Io rispondevo che non lo sapevo. Del resto che ne sapevo io, è solo un piccolo villaggio in una piccola valle.
A quel punto mi chiedevano se ero tedesco o francese. Io rispondevo che non lo sapevo.
Sono cresciuto fra questi monti, in pace dalle arroganze delle corti.
Tutti quei sapienti, uomini navigati e di scienza, letterati, burocrati e cartografi, al servizio di chi regna per la volontà divina. Nessuno è mai venuto a dirci chi siamo. Dirmi chi sono.
I miei genitori venivano dai Paesi Bassi Spagnoli, credo emigrati lì dalle Asturie, ulteriormente poi fin qui.
Mi hanno insegnato le tre lingue senza dirmi a quale appartenevo.
Non parlano mai di cos’erano prima di arrivare qui, forse sono nobili decaduti, oppure fuorilegge. Non so, a loro non piace parlarne.
Ma dicevo che me ne hanno fatte molte di queste domande, e questo spingeva me a farmele.
Che sicurezza vedevo nei loro occhi, così fieri di sapere chi fossero. O almeno credere di sapere.
Dicono che sei parte di un popolo quando vivi lì, magari addirittura ci sei nato. Se le tue origini sono oscure o scomode, sei parte del popolo che parla la tua lingua.
È questo il punto. Nella vita di un uomo tutto è legato alla lingua, non si abita una nazione ma si abita una lingua, ed è la lingua la patria da dover difendere.
È con il linguaggio che pensiamo, gli ingranaggi della nostra razionalità, è con il linguaggio che ci relazioniamo al mondo esterno, è la comunicazione stessa, quella che ci distingue, sono le parole quelle in cui rinchiudiamo i concetti per meglio definirli, ogni parola è un concetto, ed è attraverso questo che il linguaggio penetra fin negli oscuri meandri della nostra mente, plasmandola completamente.
Parole, ci sono due modi per dire “bellissimo” in lingua Navajo, attraverso quelle parole i nativi possono ancora evocare la meraviglia di quando camminavano sicuri sulla loro terra, possono evocare quelle immagini, le immagini di quando la loro cultura era sicura,
“Nizhoni” è un bellissimo paesaggio, come una vallata o una montagna, se la parola Nizhoni, una piccola parola di una lingua morente, scomparisse, morirebbero con lei quelle immagini, quei concetti, a cui la cultura nativa morente si aggrappa disperatamente.
E poi scomparirebbe anche il sinonimo, e così via.
La cultura, fatta di concetti, immagini, sensibilità, visione del mondo e modo di percepire, è essa stessa un’espressione della lingua.
Parole, che scavano in noi come piccoli parassiti pronti a vivere in simbiosi, non raggiungono la totalità dell’essere umano? Cultura, espressione, sapere, tecnica, percezione, non sono questi i cardini dell’identità?
Parole. Qualcuno dopo di me avrebbe detto che siamo quello che mangiamo, io dico che siamo quello che parliamo.
Alla fine si riduce tutto alla lingua, ma io ne ho tre, e penso alternativamente con tutte.
Fa paura pensarci, è come se le nazioni, le origini e le lingue fossero come giganteschi ciclopi che lottano per il possesso di ogni singolo essere umano.
Una vendetta del Re degli Oceani sul Laerziade.
La rivincita di ciò grava sopra le nostre teste sull’individualismo autentico.
Le origini sono il tronco di questi titani, la base dell’ingaggio, le nazioni come gli arti che stringono con le dita tutti i dilaniati, le lingue come l’occhio che tutto orchestra, pronto a usare persino i denti per strappare per sé almeno una parte dei malcapitati.
Sono come quei divini sistemi maligni che ordinarono agli uomini ancora sciocchi di riprodursi e moltiplicarsi, per poter dominare il maggior numero di esserucoli.
Io non voglio essere dilaniato, ma sento il bisogno di un disegno più definito per il mio essere.
Gli altri hanno quelle cose per rispondere alla domanda. Io no.
Ero giovane quando passò per il mio villaggio la sua stessa fine: mercenari.
Da un po’ di anni le compagnie militari private erano proliferate in tutto il Sacro Romano Impero, la miseria si era diffusa nel popolo, qualcuno diceva a causa di carestia e pochi commerci.
Era una banda di mercenari che da parecchio tempo non aveva un ingaggio ed era sulla via per ottenere un incarico da parte di un signorotto francese limitrofo.
Erano rimasti corto di approvvigionamenti, per cui razziarono il villaggio.
Uccisero, rubarono, distrussero e quant’altro.
Ricordo come mi piombarono in casa tre di loro, mi trascinarono fuori sbraitando domande.
Furiosi per non aver trovato niente di prezioso mi sbatterono per terra, mi presero a calci e mi bruciarono la casa, ridendo.
Quando riuscii a rialzarmi domandai loro di entrare nella compagnia.
I miei genitori erano morti da tempo, non avevo nessuno, e avevo appena perso tutto ciò che possedevo.
Mi risero in faccia, ma quando videro che ero serio mi portarono dal loro capo.
Quella sera stessa, sui resti fumanti del mio villaggio cucinai il primo di molti pasti al loro capitano Franz.
“I Figli di Icaro”, era il nome di quella compagine. Non seppi mai perché, dicevano che il capitano era colto.
Forse, come tanti di noi, sperava di volare via.
Da qualche anno era scoppiata una grande guerra in Germania, una guerra di religione. L’Imperatore si faceva paladino della fede e dell’unità per portare l’intera nazione sotto la sua egida.
La richiesta di soldati da entrambe le parti era altissima, pane per i nostri denti, insomma.
Viaggiammo in lungo in largo per la travagliata Germania, senza trovare un granello di polvere che fosse lindo dal sangue.
Vedevo giusta la causa dell’Imperatore, portare unità in una realtà divisa da principetti ambiziosi, portare unità nel tedesco mi sembrava nobile. E tuttavia questo aveva scatenato una guerra civile, una vera emorragia nel tedesco stesso, del resto nella civiltà è la politica ad avere il primato.
E così io e la mia compagnia fummo al servizio di tanti signorotti locali, che si facevano piccole guerre e si difendevano i castelli.
Ma col tempo ci rafforzammo, altri come me, rimasti senza niente a causa della guerra, si unirono alla compagnia, ed eravamo sempre più veterani, la nostra fama cominciò a diffondersi. Il nostro capitano Franz aveva una mira incredibile, grazie a un sistema di lenti olandese e un ottimo fucile era capace di sparare da distanza incredibile e uccidere i comandanti nemici. Il primo cecchino della Modernità; chi lo definiva codardo perché si teneva fuori dal campo di battaglia finiva sulla punta della sua spada.
Col tempo i miei commilitoni avevano sviluppato fiducia nei miei confronti.
Probabilmente perché apparivo loro un tipo tranquillo, ben diverso dalla battaglia che animava i loro cuori con ben altri archibugi. Vedevano in me qualcosa di diverso, una calma che non conoscevano, ne erano affascinati.
Lo stesso valeva per il capitano, mi aveva preso in simpatia e mi addestrava personalmente con fucile e pistola. Con la spada era totalmente negato, però avevo una buona mira.
Si era messo intesta di tramandarmi la sua arte del colpire a distanza, non che avessi speranza di eguagliarlo. Qualcuno mi sussurrò che gli ricordavo il figlio, morto per il capriccio di un signorotto.
Comunque era talmente sicuro che col tempo potessi farcela che aveva ordinato un altro sistema di lenti olandesi, spendendo un patrimonio per me. Lo apprezzai molto ma era inutile.
Non sarei mai arrivato a quel punto.
E inoltre fu la goccia che fece traboccare il vaso per Hans.
Egli era il secondo del comandante, coraggioso e forte, un vero mercenario.
Non apprezzava la particolare attenzione che il capitano mi portava, che una volta era tutta per lui. Quante volte mi accusò di tradimento, avvelenamento, e mi minacciava; quante volte mi fece fare la guardia al campo fino a orari impossibili.
Ma in fondo non era poi così male. Ogni volta che subivo le sue angherie qualcuno si prendeva cura di me.
E quando facevo la guardia al campo ammiravo le stelle.
Comunque la guerra proseguiva, incancrenendosi sempre di più in una distruzione senza limite.
Erano già passati quindici anni dallo scoppio delle ostilità, ora la partita a scacchi si giocava tra l’Imperatore e il Re di Svezia. Quest’ultimo aveva invaso la Germania, intenzionato ad accrescere il suo potere, così come l’ambizioso Imperatore. Così simili, combattevano l’uno contro l’altro.
Ed era l’uomo venuto dal nord che stava vincendo.
Così il condottiero Wallenstein formò per conto dell’Asburgo un nuovo esercito di mercenari.
I Figli di Icaro ne facevano parte. All’arrivo dell’inverno, Wallenstein ci inviò insieme a un distaccamento per proteggere la città di Colonia.
Ma gli svedesi lo attaccarono di sorpresa.
Così dovemmo accorrere per salvarlo a Lutzen.
Attaccammo gli svedesi alle spalle, mentre il loro re stava per vincere, ribaltammo le sorti della battaglia.
Io e Franz eravamo su una collinetta, ci sdraiammo e cercammo con le lenti il re che li guidava.
Franz uccise Gustavo II Adolfo di Svezia. Tuttavia gli svedesi vinsero la battaglia, anche se di lì a poco persero la guerra.
Non mancò molto tempo prima che gli svedesi fossero costretti a firmare la pace.
Un grande successo per l’Imperatore, che unificava militarmente la Germania.
La notte della firma del trattato i Figli di Icaro festeggiarono abbondantemente, anche se erano solo mercenari, avevamo combattuto per l’Imperatore e in lui avevamo creduto come unico al mondo capace di salvare la Germania da sé stessa e dagli stranieri.
Egli aveva dovuto accettare un compromesso, ma era la base per qualcosa di più grande, una futura nazione tedesca unita.
Questa era soprattutto la visione di Franz, ma egli era carismatico e l’aveva trasmessa a tutti gli altri.
Ricordo che mentre arrostivo un cinghiale per il banchetto mi offrì della birra, tutto paonazzo per l’euforia. Al mio rifiuto mi strinse forte baciandomi la fronte.
«Vedrai che in due generazioni», mi gridò facendomi fischiare lo orecchie, «con una lingua e un esercito comune, i tedeschi si piegheranno solo all’Imperatore che schiaccerà quei principetti arroganti».
Era un piacere sentirlo parlare, sembrava uno di quegli intellettuali esaltati che celebravano la Révolution.
Anche se era decisamente un tedesco.
E chissà, forse per un attimo lo fui anch’io.
Franz era solo un capitano di ventura, ma sognava di restituire la sovranità alla lingua, e non alla politica per il destino dei tedeschi.
Ovviamente durò poco. Del resto era la politica ad avere il primato. Per quella la Francia era entrata nella guerra di religione.
Franz era pura emanazione di odio. Tutto ciò che gli sembrava stesse diventando reale era svanito come fumo, anche gli svedesi erano tornati.
Eppure non era quello il punto? Franz affermava che la lingua tedesca dovesse essere il vettore di unificazione della nazione.
Sicuramente vi erano in atto singolari forze centrifughe nell’impero che fu di Ottone, e più la lingua rimaneva divisa più i dialetti locali si rafforzavano diventando sempre più simili a nuovi linguaggi, e un giorno discendenti dei tedeschi non si sarebbero riconosciuti come tali.
La lingua forse più che unire e definire, divide. La primordiale rivalità fra i Romani e i loro selvaggi vicini derivava da quello. Barbari indicava chi parlava una lingua diversa.
E così la lingua diventa il primo spunto per accusare la diversità e fare guerra al vicino.
E tuttavia è la lingua il primo fattore di identificazione di un popolo come tale, quindi oltre a enfatizzare la diversità è certamente un fattore di unità.
Così un giorno i sogni di Franz saranno realtà, ne sono certo.
La lingua tende a essere imprevedibile, come le spore di una pianta, anche sapendo che vento le trasporta, con quanta forza e in quale direzione non si potrà mai sapere dove nascerà la nuova pianta, c’è sempre un fattore che sfugge all’equazione, l’imprevedibilità sovrana della Terra.
Franz sfoderò un odio che mai gli vidi rivolgere contro svedesi o danesi.
Aveva qualcosa di viscerale contro quella terra, specchio di ciò che la Germania non riusciva a essere, ma soprattutto contro la loro lingua.
Forse era questo che ci legava, l’ossessione morbosa per la lingua.
«Hai mai sentito parlare del termine “lingua franca”?», mi chiese una sera.
«Si intende una lingua codice, usata per la comunicazione fra chi parla lingua diverse, per gli scambi di ogni tipo, usata per le questioni internazionali, una lingua che per qualche strano motivo ottiene agli occhi di tutti uno status superiore alle altre. Il francese è la nostra lingua franca, la lingua franca dell’occidente».
«E sai qual è la tendenza della lingua franca? Quella di rimpiazzare le altre in virtù della sua supremazia. Tu forse non mi crederai, ma non è forse stato così? I romani hanno costruito il loro grande impero anche grazie a tutte quelle strade che permettevano una rapida comunicazione, e nel loro impero non si parlava lingue diverse dal latino o dal greco. Perché in quelle lingue si sintetizzavano il pensiero di quella civiltà, quella cultura e quel modo di vedere il mondo. E così attraverso la lingua i romani unirono genti diversi fra loro per forgiare una mentalità comune. Ascolta le mie parole, nella lingua si sintetizza l’identità di un popolo, la prossima grande guerra sarà combattuta fra le lingue e per le lingue!», gridava come un pazzo.
«Il nemico naturale della Germania è sempre stata la Francia. Fu la Francia a fondare questo impero, e l’Imperatore Carlo, il più potente che questa terra abbia mai visto, parlava francese. Quella dannata lingua ha già scavato un nido nel cuore della nostra, e ora tocca a noi estirparlo a costo di morire. Il francese umilia il tedesco da tempo immemore, e se non cacceremo quegli invasore le nostre lande saranno oppresse da loro fino alla fine dei tempi».
Poveretto, pensavo, peccato che non possa assistere al Sole di Sedan, della rivincita finale di Arminio sulla stirpe di Augusto.
«Il punto è che i francesi hanno tutto ciò che noi tedeschi non abbiamo, ma noi strapperemo loro quelle doti per indossarle come fiere cicatrici sulla carne sanguinante dei nostri piedi, che compiono i passi sul sentiero della nostra riunificazione. La nostra lingua schiaccerà la loro. E ricorda che il popolo più potente della terra sarà colui che più avrà diffuso nel mondo la sua lingua» gridò furibondo.
Forse però aveva ragione.
In inglese ci sono due modi per dire solitudine: loneliness e solitude.
Di solito si pensa a solitudine come qualcosa di negativo, nel pensiero comune indica la mancanza di qualcosa o qualcuno nella vita che crea una sorta di vuoto a cui segue l’irrefrenabile desiderio di colmarlo. È certamente un pensiero dalla natura molto sociale che si riassume nella parola loneliness, probabilmente i discendenti anglosassoni la useranno e la diffonderanno parecchio in futuro.
Solitude ha ben altra natura, indica la solitudine cercata, il bisogno di isolarsi per far sbocciare ciò che anima lo spirito, la solitudine necessaria per costruire sé stessi. La solitudine che si ama.
Probabilmente in nessuna lingua europea esiste un vero sinonimo di solitude, è una vera rarità.
Se un giorno il tedesco dovesse davvero diventare la nuova lingua franca d’Europa nei salotti intellettuali di Londra si sfoggerebbero con fierezza accenti viennesi invece che parigini e si parlerebbe il dialetto di Magdeburgo invece che di Digione per mettersi in mostra. La plebaglia invece si accontenterebbe di ripetere qualche parola storpiata che hanno imparato da qualche mercante di Amburgo invece che di Brest.
E la parola solitude un bel giorno morirebbe, insieme a tante altre sorelle, dimenticate dallo stesso popolo che hanno forgiato.
E mentre Franz continuava imperterrito nel suo sfogo di odio mi alzai spazientito e gli mormorai che finché non fossero cessate le lotte e gli odi sarebbero esistite per sempre supremazia e sottomissione, vincitore e sconfitto, lingua franca e lingua trascurata.
Forse fu in quel momento che cominciò a odiarmi. Anche perché glielo dissi in francese.
I timori di Franz erano ben fondati, ma li calmò facilmente.
Nei primi anni i francesi ottennero ben pochi successi, e dovettero digerire parecchie sconfitte.
Franz era decisamente più ottimista ogni giorno che passava.
A volte si intratteneva con i suoi luogotenenti immaginando che, dopo la sconfitta dei francesi, l’Imperatore e il Re Pianeta avrebbero invaso insieme l’Olanda per piegare finalmente quella landa eretica.
Ah già, Franz odiava anche gli olandesi.
«Quei maledetti! Lo sapete cosa ha reso ancora più povera la nostra triste terra dall’inizio del secolo? Quegli olandesi figli di Satana! Con la loro avidità degna dell’inferno hanno preso il controllo di tutti i commerci d’Europa! Gli scambi commerciali con i regni aldilà del Baltico arricchiva la nostra terra, ma gli olandesi hanno divorato anche quella rotta! Così i nostri principi, per avere il loro stile di vita raffinato e barocco hanno rimediato il denaro aumento tasse e dogane, come se la Germania non fosse già abbastanza povera e divisa! Le città si sono spopolate, e il nostro popolo è finito nel fango. È così che sono nate tante compagnie come la nostra, sempre al servizio di quei principi che ci hanno ridotti in miseria!»
«Fidatevi di me, se un giorno il tedesco dominerà il mondo sarà grazie agli olandesi. Hanno creato una rete economica capillare come non ce n’è mai stata in tutta la storia del mondo.
Commerciano con l’America, l’Africa, i mussulmani dell’Est, l’India e la Serica.
Vanno in lungo e in largo fra gli oceani con quel dono divino concesso loro dal Diavolo.
Hanno creato una fitta ragnatela di commercio che permette loro di ottenere un profitto considerevole, mettendo le mani su materie prime e sfruttando la manodopera degli indigeni, a questi viene imposto il modello economico, e sono costretti a imparare la lingua degli oppressori. Hanno una vera economia-mondo. Per quanto maledetti eretici e pericolosi isolazionisti, sono il simbolo di ciò che potrebbe raggiungere un popolo tedesco unificato».
Negli anni successivi, dopo le iniziali difficoltà i francesi ottennero le prime grandi vittorie.
A Rocroi, in Belgio, veterani spagnoli vennero annientati dalla nuova ricetta bellica francese.
La Francia cominciava a stagliare la sua ombra su tutta l’Europa.
Un bell’auspicio per l’appena incoronato Re Sole.
La Spagna cominciava a cadere su sé stessa, e la Germania devastata come poteva difendersi?
L’anno dopo Rocroi, i Figli di Icaro vennero assoldati dalla Baviera per difendere la città di Friburgo dai francesi.
Franz era quasi isterico.
Le cose stavano così:
– La Francia stava mettendo la Spagna alle strette.
– I francesi erano entrati nello stesso suolo spagnolo grazie alle sollevazioni contadine e ne avevano annientato i veterani a Rocroi.
– Il grande impero spagnolo, che da più di cent’anni dominava il mondo, cominciava a schiantarsi, lasciando l’Austria da sola a fronteggiare i Borbone.
– La Baviera intanto, sotto l’omonimo Franz von Mercy aveva strappato alla Francia importanti posizioni per il controllo del Reno. I Figli di Icaro ne facevano parte.
– La Francia aveva risposto con l’invio di una grande forza armata molto numerosa.
I combattimenti furono durissimi, Fliburgo era una fortezza poderosa e situata su un’altura, se ben difesa poteva essere inespugnabile.
Ma i francesi erano ben determinati a vendicarsi, ed erano numericamente superiori.
I combattimenti cominciarono il 3 agosto, lo ricordo bene.
I Figli di Icaro si erano assottigliati dopo tanti anni di guerra, e Franz per rispettare gli impegni dei committenti cominciava a schierare anche gli armaioli e scudieri. Non passò molto prima che fosse costretto a schierare anche i cuochi.
Così imbracciai le armi, ben diverse da mestoli e padelle, insieme ai miei compagni.
Eravamo posti alla difesa della periferia meridionale di Fliburgo.
Venimmo investiti da un attacco a tenaglia.
Fortunatamente avevo un moschetto e non una spada, altrimenti sarei morto. In prima fila vennero massacrati. Il mio reparto poi venne disperso.
Io caddi prigioniero del nemico.
Rimasi prigioniero dei soldati per molto tempo.
Facevo lavori ingrati, come pulire latrine, lucidare gli stivali e sottostare al sadismo dei comandanti.
Inoltre ci massacravano di lavoro e botte, fino a lasciarci letteralmente in fin di vita sui cigli delle strade. Chi dice che i francesi sono a modo sbaglia.
Sono esseri umani, e sanno essere crudeli come tutti.
Nel campo francese era d’obbligo parlare la loro lingua, era una forma di umiliazione.
I prigionieri erano stati privati di tutto, erano diventati oggetti, la loro identità era stata strappata e la lingua era l’unico appiglio con essa. Chi parlava tedesco veniva preso di mira, e non parlare affatto era quasi peggio.
Ma io conoscevo il francese, perciò parlai loro nel loro idioma, cercando di accattivarmeli, ma li feci solo infuriare.
Mi torturarono ripetutamente.
Ricordo questo soldato, François, a cui ricordavo un mercenario che gli aveva ucciso il padre.
Mi aveva chiuso in un capannone e veniva a trovarmi tutti i giorni.
Scordai tutto.
Il mio nome, il luogo dove ero nato, le immagini della mia vita, le esperienze e i pensieri che mi animavano, tutto.
Ogni cosa divenne scura, come una macchia di sangue. Tutto era dolore.
E infine, un giorno in cui sbadatamente implorai aiuto in francese, mi tagliò la lingua.
Quella stessa lingua che non era stata in grado di regalarmi a un idioma, nonostante gli sforzi di entrambi.
Il mondo fu a lungo un vorticare confuso e truculento.
Avevo perso tutto, e quel poco che la mia mente acquisiva lo voleva subito perdere, per non soffrirne la mancanza.
Vagai come in un altro mondo. Vivevo il mio Armageddon ogni secondo.
E infine mi trovarono.
I jinn li chiamo io. Hanno il corpo completamente avvolto da lunghe tele.
Mi trovarono in un deserto. Mi salvarono dalla morte, alleviarono le mie pene, per molto, molto tempo.
E infine, quando fui pronto, mi salvarono davvero,
Mi portarono a casa loro. Nel cuore di una montagna ripida, sotto un manto di lava, nell’ombelico della Terra, nel Giardino dell’Eden, tra le bianche cime e le verdi valli, l’acqua scura e la sabbia rovente.
Lì dove sorgeva la Torre di Babele…
E cos’è la parola di fronte al dito dell’uomo che sogna di arrivare al cielo?
Non fui più ciò che avevo perso o ciò che non ero mai stato. Ogni cosa perse e prese senso.
La vera pace. Outer Heaven


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010