Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
20ª edizione - (2017)

La talpa innamorata

Sceglierei mille altre volte la strada che mi ha portato a diventare un angelo. Mio malgrado devo ammettere che non mi aspettavo sarebbe stata questa la fine della storia, ma sono ugualmente felice.
Poco dopo essermi trasferita in un nuovo condominio, mi sono accorta che nel mio stesso palazzo abita un ragazzo di origini marocchine, suppongo. Si chiama Suma ed è molto carino, ma ha costruito un muro impenetrabile attorno a sé che mi impedisce di conoscerlo.
Quando ho raccontato ad alcune persone che credo di provare determinati sentimenti per questo ragazzo, mi hanno risposto dicendo che non mi posso assolutamente innamorare di uno come lui. Le motivazioni sono state queste: è marocchino, potrebbe trovarsi dalla parte dei miei nemici, potrebbe farmi del male. E continuano con una lunga lista, ma non voglio elencarle tutte, dato che mi fanno solo arrabbiare.
Oggi, se incontri un individuo di colore per strada, automaticamente fa parte dell’ISIS e devi averne paura. Non è sempre così. Non è vero che dietro al viso di un semplice individuo dalla carnagione un po’ più scura della nostra, si nasconde una persona che trova facile prendere in mano un kalashnikov e fare fuoco su chiunque si trovi davanti a sé.
Un esempio attuale è proprio l’ISIS.
Non mi sono mai documentata sull’ISIS, in particolare sulle loro credenze e sul motivo per cui stiano compiendo questi atti osceni, ma l’anno scorso ne ho sentito il bisogno: volevo conoscere il loro punto di vista, le motivazioni per cui adottano certi metodi e perché agiscono ricorrendo alla violenza.
Ci sono stati diversi casi che non mi hanno lasciata indifferente; ho raggiunto il culmine quando hanno organizzato la strage a Dacca. Ho pianto lacrime che credevo di non avere, ho sentito la paura accapponarsi sotto la mia pelle. È stato proprio in quel momento che ho realizzato quanto eravamo in pericolo e quanto lo siamo tuttora.
Tra una strage e l’altra trascorrono periodi di silenzio che spesso sono più lunghi di altri, ma ogni giorno la paura aumenta inconsapevolmente. A volte, anche per motivi futili.
Quante volte è capitato di entrare in metropolitana e trovare solo un posto libero, tra due uomini che risultano africani o asiatici per via del colore della pelle?
E quante volte vi siete seduti nonostante la paura vi stesse attanagliando lo stomaco?
Avete ignorato i vostri presentimenti, avete ignorato le dicerie, avete guardato negli occhi di quegli uomini, riconoscendo qualcosa di puro e di buono, oppure avete semplicemente rinunciato al posto e siete rimasti in piedi nonostante il lancinante dolore alla schiena?
Un giorno, mentre andavo a scuola, un ragazzo dalla pelle color caramello è salito sull’autobus. Si è seduto al fianco di un signore anziano e questi, dopo avergli concesso un’occhiata piena di odio, si è alzato e ha cambiato posto.
Non sono rimasta indifferente a tutto questo. Per niente.
Perché siamo arrivati a questo? Perché dobbiamo considerare colpevoli persone con la carnagione più scura, solo perché ci ricordano i volti di coloro che hanno aderito all’ISIS?
Discriminare non è un modo per scappare dalla paura.
Discriminare non è la soluzione per smettere di essere terrorizzati.
Avere paura è umano, è un sentimento.
E se non provi sentimenti, non vivi.
Preferisco riconoscere di avere paura piuttosto che discriminare persone innocenti, che risentono quanto noi di questa violenza. Se per noi è complicato sopravvivere, per loro probabilmente lo è ancora di più, considerato che la reputazione della loro religione si sta guastando.
E se una ragazzina come me, di quasi diciassette anni, riesce a concepire un pensiero come questo, possono farlo tutti. Dovremmo smettere di fermarci all’apparenza e andare avanti, sradicare le difficoltà, bruciare i pregiudizi e abbracciare anche coloro che non credono nella nostra stessa religione.
Il problema dell’indifferenza e della discriminazione non ha radici nel colore della pelle di un individuo o nella religione in cui egli crede, ma nel nostro egoismo.
E purtroppo, ne abbiamo fin troppo. Ci fermiamo sempre all’apparenza, non controlliamo mai quanta purezza e quanta bontà c’è dentro a una persona, anche nel più remoto angolo della loro anima.
Io ci ho provato e spero di essere un esempio.
Quando sono riuscita ad abbattere il muro che Suma aveva costruito, lui mi ha detto di scappare finché ero in tempo. Dopo qualche minuto di silenzio sono riuscita a scoprire il motivo: diversamente da come supponevo, proviene da una famiglia di emigrati siriani e vuole tenermi fuori dalla sua vita. Si considera una talpa, perché quando scopre qualcosa riferisce ai suoi amici più cari i pericoli in agguato.
Capisco che abbia timore per la mia incolumità e sinceramente mi fa anche molto piacere, ma non posso permettere che la sua paura nei confronti dei suoi concittadini ci divida. Abbiamo cominciato a legare sempre di più, ignorando dicerie, pregiudizi, commenti, nella speranza di coltivare qualcosa di puro e basato sul rispetto reciproco.
Ed era il nostro sogno. Non volevo che nessuno osasse distruggerlo o infiammarlo. Era una cosa nostra, privata, che nessuno doveva giudicare.
Una mattina mi stava aspettando sotto casa, per andare a prendere l’autobus insieme. Dopo avermi baciata, come ogni mattina, ci siamo incamminati verso la fermata.
Il sole splendeva alto nel cielo, e sebbene fossero solo le sette e mezzo di una mattinata di aprile, già sapevo che quel giorno non avrebbe piovuto. Senza neanche farlo apposta, avevo indossato i jeans nuovi e la giacca di pelle nera, la mia preferita, quella che non indossavo da ottobre.
Stavamo parlando allegramente: lui mi prendeva in giro perché ero in ritardo, come sempre, e io gli rifilavo una linguaccia. Stava accadendo tutto nel giro di una manciata di secondi, niente di più. Tutti e due stavamo bene, eravamo felici.
Poi tutto è successo troppo rapidamente e non ho avuto il tempo di contare quanto tempo è bastato per distruggere la nostra felicità.
Ho sentito un rumore di ruote che strisciavano sull’asfalto, mi sono girata lentamente e ho visto un’auto trasandata, grigia. Lui mi ha stretto la mano, come per tranquillizzarmi, e proprio in quel momento l’uomo che non guidava la vettura ha tirato giù il finestrino e ha mostrato un kalashnikov.
Lui è una di quelle persone che non si fa problemi a sparare, dato che è esattamente quello che ha fatto.
Uno, due, tre colpi. Dritti verso di noi.
Non ho avuto il tempo di capire che il bersaglio ero io. Non ho avuto il tempo di stringere più forte la mano di Suma. Non ho avuto il tempo di pensare, di reagire, di sperare.
I proiettili raggiungono il mio corpo e nel giro di pochi attimi mi ritrovo per terra: la mia anima sta per essere prelevata dal mio corpo immobile, il mio sguardo è perso e sfocato, non riesco a riconoscere i volti delle persone che mi stanno attorno, nemmeno quello di Suma, che oggi è una talpa innamorata.
Ho paura di morire. Ma non mi vergogno ad ammetterlo. È umano e in questo momento sono un’umana che sta morendo, un’umana che è morta senza aver paura del suo assassino, ma che l’ha sviluppata in seguito.
Non so se è qualcosa di cui andare fieri, ma penso di essere una delle poche persone che non ha avuto paura del suo nemico prima di morire.
A un tratto il respiro comincia a mancare. Chiudo gli occhi e cerco di calmarmi. Quando li riapro ho una visione chiara di Suma: il suo viso è bagnato, gli occhi sono spalancati e sta gridando, anche se la sua voce mi appare come un sussurro.
Mi sta chiamando per nome.
Cerco di pronunciare qualcosa, ma la mia voce sembra scomparsa. Non ho mai detto a Suma di amarlo e non voglio morire senza prima averlo fatto. Non voglio perdere la mia battaglia contro l’ISIS.
Così prendo un gran respiro, riapro gli occhi e, cercando di stare tranquilla, pronuncio quelle due parole.
Poi i miei occhi si chiudono e improvvisamente mi rendo conto di essere un angelo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010