Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
11ª edizione - (2008)

La perla del pastore da una riflessione sull'Iliade di Omero nella traduzione di Maria Grazia Ciani e nella rielaborazione creativa di Alessandro Baricco

L'antica Troade e tutta la terra dei Frigi erano in gran fermento, per le strade delle città l'aria vibrava in un susseguirsi di voci e notizie discordanti. Le ribellioni infuocavano le coste ioniche: Greci ribelli all'impero persiano, Persiani ribelli alle istituzioni greche, coloni ribelli alla madrepatria. Ma se una piccola parte della popolazione era dedita a guerreggiare, i più si affannavano nel commercio, nei mestieri, nelle arti; era un'epoca di grandi viaggi, un'epoca di lunghe navigazioni, tempi in cui le città fiorivano.
 Anni immortali. Ma per Patroclo, steso sul suo giaciglio di sterpi sotto al chiaro di luna, tutto ciò era lontano, un'eco sottile che lo sfiorava solo nelle poche ore trascorse ad Abido. La città era un piccolo centro, quasi un paese, e lui la raggiungeva solo per vendere lana, latte o formaggio; per il resto viveva nei prati, sulle rocce, sugli alberi, solo con le sue pecore. Si spostava in quella regione che ormai non aveva più segreti per lui. Talvolta incrociando altri pastori camminava con loro per qualche giorno, alcuni li conosceva bene, altri potevano essere addirittura suoi lontani parenti, sebbene non avesse mai cercato notizie sulla sua origine.
 La sua vita era lì, era guardare le stelle e mungere le pecore, ascoltare le cicale e le storie dei viandanti, non aveva pensieri.
 Una mattina d'estate, solo e felice, suonava allegro un piccolo flauto acquistato giorni prima ad Abido. S'accorse che in cima alla collina era stato montato un accampamento. Smise subito di suonare: le tende erano più grandi e numerose di quelle dei pastori. Cosa poteva offrire per presentarsi ai forestieri? Tolse dalla sacca una forma di pecorino e si avvicinò con cautela alla tenda più ampia.

Già da qualche settimana Patroclo trascorreva le sue giornate nella tenda di Critolao. L'accampamento accoglieva una cinquantina di persone, una comunità nomade di mercanti provenienti da Sardi; si diceva che avessero antenati Greci. Il loro capo aveva accolto nella sua piccola reggia quel pastore perché allietasse le ore più calde con le sue melodie soavi.
 Tutto sarebbe andato per il meglio se Critolao non avesse avuto una figlia, se quella figlia, Andromaca, non avesse avuto l'età di Patroclo, e se non fosse stata sorprendentemente bella. Il giovane era rimasto ammaliato fin dal loro primo incontro, faccia a faccia sull'entrata della tenda. Due occhi profondi dal taglio orientale l'avevano penetrato fin dentro all'anima, i capelli lunghi, nerissimi, sciolti sopra le spalle, incorniciavano un volto scuro ma luminoso. Aveva sorriso, lei, lui a bocca aperta non aveva saputo muovere un solo muscolo. Si parlarono, in seguito, i loro dialetti erano simili. Quando si incontravano nella tenda di Critolao per un attimo erano i loro sguardi a scambiarsi messaggi furtivi.
 Patroclo capì di amarla, la sua spensieratezza si tramutò in tormento, più l'amava e più la sentiva lontana. Di giorno, nella tenda, sperava con ansia di poterne catturare il profumo; di sera, al tramonto, si accasciava disperato sulla riva del mare e versava tristi lacrime maledicendo le sue pecore e la sua nascita di umile pastore. Non aveva altro pensiero o altro desiderio che di fare di Andromaca la propria sposa. Ma ciò non era possibile, non aveva nulla; un vecchio del clan un giorno gli parlò con onestà e chiarezza: se non aveva un dono da offrire alla ragazza, un dono che potesse equiparare la sua bellezza, allora era meglio che nemmeno la guardasse perché poteva per sempre scordarsela.

Terra
 Sciagurato! Tu, vecchio, che vessi gli uomini e ingoi le navi con gorghi e tempeste, non ti è bastata la strage di Salamina? Altro dolore vuoi infliggere agli umani? Godi dei tormenti di questo giovane pastore? Perché non lo accontenti, perché non gli rendi ciò che gli spetta?

Mare
 Moglie mia, i tuoi giudizi sono duri e ingiusti. Perché mi insulti? Non capisco di che parli. Cosa potrei mai fare io per quel giovane sfortunato? Forse ti riferisci a qualcosa di cui non conservo il ricordo. Lo sai, cara, che solo il mio respiro non dimentico, la dolce carezza che stendo sulle tue sponde; il resto lo trascinano via le correnti.

Terra
 E così la vecchiaia ha cancellato la tua memoria, i mille sacrifici e doni dei guerrieri Achei… Ma credo che quando comincerò a raccontarti le vicende di questi discendenti degli dei, ti rammenterai, e capirai come puoi aiutare questo ragazzo.
 In questa piana, non lontano dal nostro amato figlio Xanto che scorre tranquillo, sorgeva un tempo una città fiorente: non ti sarai certo dimenticato della grande Ilio, Troia dalle possenti mura; le sue rovine giacciono ora sepolte sotto quella collina, dove i nomadi hanno montato le loro tende. E qui, sulla riva sabbiosa, si accamparono gli Achei. Per dieci anni combatterono sotto le mura della città, prima di espugnarla e di ridurla in cenere; ogni giorno infuriava la battaglia e gli zoccoli dei cavalli mi percuotevano, riducendomi in polvere, una fitta nube insanguinata.
 Morirono centinaia di valorosi, da una parte e dall'altra, e giunse l'ora anche per il grande Ettore, l'eroe che più di una volta aveva salvato Troia dalla rovina.
 Ettore glorioso era morto, Achille l'aveva ucciso, il figlio di Peleo era tornato in battaglia per vendicare la morte del suo amato Patroclo. Ma non si accontentò di ucciderlo, il dolore che lo affliggeva era grande e lo sfogò con ferocia brutale. Per dodici giorni trascinò il corpo di Ettore intorno alla tomba di Patroclo, con la faccia che strisciava nel fango, voleva straziarne le carni, ridurlo in brandelli. Tutto sotto gli occhi dei suoi fratelli, della moglie, della madre Ecuba e del vecchio padre che nel cuore non frenava il dolore. Impazzito Priamo lanciava maledizioni, il saggio re di Ilio era ormai al culmine della disperazione, non poteva più sopportare quell'atroce spettacolo, avrebbe preferito la morte.
 Così una sera Priamo, caricati su un carro doni preziosi degni di un dio, s'incamminò verso l'accampamento acheo per riscattare il corpo di Ettore. Solo grazie all'intervento divino poté giungere sano e salvo nella tenda del pelide Achille. Allora si gettò ai suoi piedi e abbracciategli le ginocchia cominciò a pregare e a baciare le mani che gli avevano ucciso il figlio.
 “Ricordati di tuo padre, divino Achille” diceva il vecchio. E Achille aveva ricordato. Mentre Priamo lo supplicava la sua mente era volata lontano, nella fertile Ftia. Pensava alle guance ruvide di Peleo, alla barba folta che tante volte aveva accarezzato il suo volto. Da più di dieci anni non vedeva suo padre: la sua barba, ormai, doveva essere diventata bianca. Chi l'avrebbe difeso nella reggia lontana? Lui era lì a Troia e forse era destinato a non rivederlo mai più.
 Allora nel cuore dei due si era sciolta la rabbia, i muscoli finalmente si erano rilassati, la tristezza opprimeva loro il petto, era giunto il momento di darle ascolto. Per i due eroi, dopo tanti dolori, era tempo di piangere, e lo fecero insieme.
 Le mani di Achille incontrarono quelle del vecchio Priamo. Una lacrima rigò il volto del valoroso guerriero, proprio mentre una grossa goccia cadeva dagli occhi umidi del re infelice. L'uno piangeva il vecchio padre lontano e la morte dell'amato compagno, l'altro piangeva il figlio, l'ultimo rimasto a difendere la rocca di Ilio, ucciso e gettato nel fango.

Mare
 Tu raccogliesti il frutto di quel pianto, ricordo. Come dimenticare le imprese di uomini che per esse hanno ottenuto l'immortalità? Con dolcezza si erano parlati e le loro lacrime si erano fuse in una goccia salata. Tu mi consegnasti quella preziosa goccia affinché ne facessi una perla splendente, così che non andasse perduta.
 Nascosi la perla in una piccola grotta insieme ai tesori delle navi affondate. Ora capisco: è tempo che i miei flutti la riportino a riva perché renda a un uomo il bene umano che l'ha plasmata.

Patroclo, sfinito dal dolore, si accasciò sulla rena. Singhiozzava e qualcosa nel petto gli impediva di respirare. Si avvicinò all'onda, immerse le mani sotto al pelo dell'acqua e fece per sciacquarsi il viso quando notò un riflesso argenteo. Chiuse le dita ed estrasse dal mare una sfera di morbida luce. La osservò: vi si specchiava tutto lo splendore della luna piena.
 Patroclo si rese conto che si trattava di una perla, ne aveva viste in città, offerte nei templi o al collo di donne importanti, ma questa era enorme, non immaginava nemmeno che esistessero perle di quelle dimensioni.
 La tristezza di colpo scomparve, il giovane ringraziò il cielo, il mare, o chiunque l'avesse voluto aiutare. Fuori di sé dalla gioia cominciò a correre, giunse all'accampamento dei nomadi che ancora stavano cenando e, come se lo volesse il destino, incontrò Andromaca che mesceva del vino dietro alla tenda.
 “Andromaca!”
 “Patroclo, che c'è? Calmati. Mio padre si chiedeva dove fossi, gli piacerebbe sentire il suono del tuo flauto, questa sera.”
 “Dolce mia stella, suonerò anche tutta la notte se sulle mie note potrò ascoltare il tuo canto. Oggi tu farai di me l'uomo più felice del mondo, o mi ucciderai di dolore.”
 “Patroclo, come parli? Stai farneticando, peggio, ti stai prendendo gioco di me.”
 “Ascolta, Andromaca, so bene di essere un umile pastore, ma i tuoi occhi mi hanno stregato e la tua voce è per me come il richiamo di una sirena. Se tu vorrai accettare in dono questa perla marina, e se tuo padre la riterrà degna della tua bellezza, allora sarai la mia sposa. Nonostante le mie modeste origini mi riterrei l'uomo più fortunato della Terra e al tuo fianco sarei pronto a raggiungere le coste d'Egitto per cercarvi fortuna.”
 Le guance di Andromaca si infuocarono e di colpo le mancò la voce. Gettò le braccia al collo di Patroclo e tutta tremante si lasciò stringere.
Due settimane più tardi, il giorno del matrimonio, Critolao diede la sua benedizione ai giovani sposi. I due si tenevano per mano e accompagnati da qualche fanciulla scendevano con passo incerto verso la spiaggia, verso la loro prima notte di nozze.

Terra
 Guardali, caro, sono felici. Ridono e saltano come bambini in preda all'emozione. Danzano in acqua al ritmo della lira.
 Mi ricordano tanto i nostri giovanili giochi d'amore: la Terra era il nostro allegro giardino.
 Che belli gli spruzzi d'acqua che alzano ruotando le braccia: riflettono la luce dei fuochi sulla spiaggia.

Mare
 Trasformerò ognuno di quegli spruzzi in una perla splendente!

Terra
 Che dici, caro! Così ti colmerai di perle e gli uomini ti daranno il tormento pur di setacciarti da cima a fondo. Sai come sono gli uomini…

Mare
 Hai ragione, cara. Allora questa notte da ogni bacio dei due amanti nascerà una conchiglia: sotto a quelle nasconderò le perle.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010