Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
11ª edizione - (2008)

Occhi di Bambina da uno dei temi del Mercante di Venezia: del Diverso visto come nemico, quasi...

Bzzzzz.
 Un ronzio?
 Leggero fluttua nell'aria, vibrando incessantemente.
 Bzzzzzzzzz
 Più forte.
 Sempre più forte
 Fortissimo!
 L'abbaiare di Matilda mi fece sobbalzare come punta da un'ape. Ape? Forse era suo il ronzio che avevo sentito. Però, per essere così forte, avrei dovuto averla perlomeno nell'orecchio...
 Sbattei le palpebre, leggermente intontita. Pennichella a occhi aperti. Come al solito...
 Chi sono io? Mi chiamo Alice Morrowind e ho già sette anni. E sì, sette anni sono proprio tanti. Non ne ho più sei, non ho più tempo per pensare a sciocchezzuole come i giochi. Be', sì, lo ammetto. Mi piace ancora molto giocare, ma soprattutto mi piace perdermi nel mondo della mia fantasia.
 Come sono? Ho due occhi del colore del cielo dopo la pioggia, d'un azzurro così intenso da sembrare vivo. I miei capelli assomigliano al grano che cresce nei campi all'ombra delle montagne, mentre la mia pelle è così chiara da fare quasi invidia al latte che mungo ogni mattina dalla nostra cara Carolina.
 La mamma è come me... e anche il papà... e anche la nonna... e il nonno. Tutti in paese sono come me, e io sono come tutti loro. Tutti uguali, guardi una faccia e dentro ci vedi in qualche modo la tua. Rassicurante. Anche se, devo ammetterlo, leggermente noioso. È bello vedere sempre le stesse cose ogni giorno, ti fa stare tranquilla, ma dopo un po'... verrebbe voglia di vedere cose differenti. Ma so che è impossibile, se provassi anche solo a dirlo in giro verrei rinchiusa nella vecchia Casa per Pazzi di Winter Shave.
 Se sono certa che sia davvero impossibile? Lo sono, eccome. Dire che esistano persone diverse da noi sarebbe come dire che esistono altri paesi oltre Twinn, come dire che esistono altri fiumi oltre il Puk, come dire che il mondo continua oltre la Valle, oltre le montagne che sa sempre ci hanno accerchiato. Impossibile. E se volete lo scandisco anche meglio: I-M-P-O-S-S-I-B-I-L-E!
 “Alice!! Vieni piccola, è pronta l'acqua per il bagno! Forza, che si fredda!”
 Puff!
 Altra piccola pausa dalla realtà.
 Ennesima pennichella da sveglia. Dite che dovrei preoccuparmi?
 Ma preoccuparsi non è da bambini, è da adulti. Lasciamo che siano loro a pensarci. Se la mamma e il papà non sono preoccupati, perché dovrei esserlo io? Mi alzai, piccola colombella bianca che spicca il volo, battendomi la vestina con le mani per sfrattare ogni minima impurità che avesse osato aggrapparsi. Niente e nessuno tocca la mia vestina!
 Baboooom!!
 Terremoto? Finimondo?
Non so cosa successe, ma di colpo la terra prese a tremarmi sotto a i piedi. Caddi a terra, inzaccherandomi tutta. La mia vestina!!
 La mamma uscì di corsa dalla casa: “Alice! Alice!”.“Sono qui, mamma!” risposi, le lacrime che scorrevano a fiotti sulle mie guance, rigandole di scuro mischiandosi con la polvere che si era alzata come un fantasma nell'aria.
 Mi prese fra le sue braccia, mi tenne stretta a sé. Sentivo il suo fiato caldo sulle guance umide, l'affannoso alzarsi e abbassarsi del suo petto contro il mio. Arrivò anche il papà, non so quando né come, so solo che sentii le sue mani calde sulle mie braccia, i calli ruvidi raspare la mia pelle.
 E passò. Di colpo tutto passò.
 Ci lasciammo, ancora circospetti, timorosi che da un momento all'altro potesse ricominciare tutto senza avere più una fine.
 “Cos'è stato?” chiesi, la voce tremante per i singhiozzi che ancora rimbombavano le mio petto.
 “Non lo so...” rispose mamma. Poi lo vedemmo. Una colonna di fumo che come un serpente famelico s'innalzava nel cielo, sinuoso, incombente. Spaventoso.
 Rimasi a fissarlo, quella lunga stringa nera che si rifletteva nei miei occhi, esatta copia di quello che accadeva in cielo.
 Non dicemmo nulla, come incantati, ipnotizzati da quell'evento che aveva sconvolto la nostra giornata. Non tanto per il botto, non tanto per il terremoto e neppure per il fumo. Per il semplice fatto che ogni giorno era sempre passato come quello prima... e come quello prima ancora. E ora era successo qualcosa che l'aveva cambiata. L'aveva resa unica. Non sarebbe mai più stata come le altre, e nessun'altra sarebbe stata come questa.
 Pensieri troppo grandi per la mia età, ma che comunque sfilavano veloci nella mia mente sconvolta. Una giornata diversa! Diversa! Parola quasi sconosciuta in paese, ricordata solo in qualche vecchio libro riposto in qualche angolo della vecchia biblioteca di Timelost. Magari mangiucchiato da un topo o due...
 Non c'era mai stato bisogno di usarlo, anzi, nessuno sapeva davvero cosa significasse, perché non c'era mai stato qualcosa di diverso, ma adesso! adesso! Di questo Diverso ce n' era... e anche tanto...
 Il panico cominciò a scivolare via come sabbia portata dal vento. Come acqua fra le dita che inesorabile scivola via. Gioia, ecco cos'era quel calore che sentivo fluire in tutto il mio corpo. Il terrore iniziale per quel repentino cambiamento era sparito, sostituito dalla felicità e dalla curiosità di scoprire che cosa mai fosse venuto a interrompere quella monotona vita fatta di cose sempre uguali.
 Ma non sembrava essere la stessa cosa per la mamma e il papà. Continuavano a fissare quel fumo denso che andava diradandosi, gli occhi così spalancati che non mi sarei stupita di vederli cadere per terra per la mancanza di appigli al corpo. Mi avvicinai lenta e strattonai la manica della veste di mamma. Non rispose. Tirai con più insistenza fino a quando vidi il suo volto girarsi lento verso di me, quasi non mi vedesse. Come se davanti a lei non ci fosse nessuno. Cominciai a tremare e forse fu quello che la riportò in sé. Mi sembrava davvero una reazione eccessiva. Davvero tanto eccessiva.
 “Mamma?” azzardai e lei mi sorrise, l'ombra dei soliti sorrisi che mi rivolgeva. Mi prese per mano e tutti andammo nella piazza del paese. C'erano tutti, ma proprio tutti. Camminavano come zombie, come se non avessero idea neppure della loro identità. Li guardavo, perplessa, mentre barcollanti si urtavano fra loro, gli occhi che mai si staccavano dall'unico refolo di fumo rimasto quasi fosse stato uno spaventoso mostro pronto a divorarli. E poi iniziarono le urla. Dapprima lontane, poi sempre più vicine, come una peste che si diffonde senza tregua. Urla scomposte che si fecero sempre più nitide, parole finalmente riconoscibili nel tumulto delle voci: mostro, alieno, deformità si mischiavano ad urla diverse, non di odio, ma di dolore.
 Lasciai la mano della mamma e la evitai quando all'erta cercò di riacchiapparmi. Dovevo capire. Mai avevo udito urla di quel genere né di tale dolore, né di tale odio.
 Corsi e corsi, spingendo gente, venendo spinta, sballottata come una bambola rotta. Sentivo i polmoni andare in fiamme, vedevo tutti quei visi che si mischiavano l'uno nell'altro... occhi azzurri... capelli biondi... facce pallide... ed eccolo! Ecco la causa di tale trambusto!
 Un ragazzino giaceva in mezzo allo spiazzo formato dai miei compaesani, persone raggruppate come voraci avvoltoi. Lo vidi, sì, lo vidi... e rimasi a bocca aperta. Era un ragazzo, non c'era dubbio, ma era così diverso!
 Gli occhi erano scuri come le profondità del pozzo dietro casa e avevano la stessa impenetrabile profondità. Lo vedevo soprattutto perché li teneva sbarrati per il terrore. E non potevo certo dargli torto. Persone che fino al giorno prima erano stati dolci panettieri o docili mugnaie ora parevano lupi affamati che fissavano la loro preda.
 I capelli erano riccioli come il vello delle pecore e scuri come le sterpaglia bruciate. La pelle era anche lei scura, scurissima, come la cioccolata fumante che si beve d'inverno. Solo che mancava il fumo. Stava lì, tutto rannicchiato, le ginocchia sbucciate per la caduta. E li fissava con terrore, era paralizzato. Ma non certo per il fatto di vedere qualcuno diverso da sé. Il suo era terrore vero, motivato da un pericolo incombente. Io continuavo a guardarlo con stupore, la bocca socchiusa come un bocciolo incerto se sbocciare o meno.
 Un piccolo proiettile grigio. Un urlo di dolore. Dovetti sbattere più volte le palpebre per convincermi che non si trattava di un incubo. Pietre! Gli stavano tirando addosso delle pietre! Non potevo credere ai miei occhi, i quali si spostavano sgomenti sulle singole persone che stavano mettendo in atto quella crudeltà. Quella era la signora Malley, che due giorni prima le aveva offerto una fetta di torta. Ora il viso era deformato in qualcosa di indicibile. Quello era invece il garzone, Elliot, che le aveva fatto assaggiare di nascosto la panna del latte appena munto. E ora lanciava sassi contro un ragazzo indifeso quasi fosse stato un assassino.
 Un urlo di rabbia esplose nell'aria e solo dopo capii che era partito dalla mia stessa gola. Mi buttai quel poveretto, facendogli scudo con il mio stesso corpo. “Basta! Basta! Smettetela non vedete che lo state uccidendo?” Voce gorgogliante di lacrime che neppure mi ero accorta di stare versando. Io, una bambina contro quel muro di adulti.
 “Togliti, Alice!” mi urlarono contro, ma non osarono avvicinarsi, come se temessero di appestarsi o di perdere qualche arto. “Perché? Perché lo state facendo? Io lo so che non siete così, perché gli state facendo del male?” chiesi. La risposta che ricevetti mi lasciò esterrefatta. “Diverso. È diverso... non è come noi!” Rimasi immobile. Statuetta di un putto che difende il proprio protetto. Era una risposta così stupida!
 “Cosa? E questa vi sembra una ragione sufficiente per trasformarvi in bestie senza cuore che ammazzano un'altra persona a sangue freddo?” Sette anni, ma solo nel corpo. Mi guardarono strani, come se quella che non capiva fossi io. “Ma, Alice, è diverso. Non lo conosciamo, non sappiamo nulla di lui, è un mostro. Diverso. Non può rimanere. Non è come noi. È diverso e deve essere eliminato. Il diverso è il male.”
 Rabbia. Rombante dentro di me, Bambina che si oppone agli adulti. Bambina che comprende molto più degli adulti, forse perché ha ancora la fortuna di poter vedere con gli occhi e con l'anima, lasciano fuori la mente. Niente pregiudizi. Niente Odio. Solo compassione per un essere sofferente, per un ragazzo come altri, seppure di aspetto differente. Mi alzai in piedi, il giovane scuro tremante dietro di me. Una bimbetta come protettore. Li guardai fissi, uno a uno, finché non furono costretti ad abbassare lo sguardo. Gente Adulta che viene rimproverata da una poppante. Come può cambiare la vita in poche ore. La mia voce uscì, non più rosea e gaia come dovrebbe essere, ma carica di anni che ancora non gravavano sul mio corpicino ma che in pochi secondi avevano intaccato il mio spirito: “Ma non vi vergognate? Bestie. Ecco cosa siete. Vi credevo persone gentili e caritatevoli. E ora eccovi qui ad accanirvi su un povero ragazzo solo perché dite che è diverso. Il diverso fa paura è vero. Ci toglie dalla nostra tranquilla e conosciuta monotonia. Ma anche l'uguale può essere pericoloso. Chi vi assicura che uno di voi, che tanto vi assomiglia, un giorno non decida di accoltellarvi? Chi vi assicura che un fratello non vi odi a tal punto dal volere la vostra morte?”. Ci fu un mormorio generale. “Toglietevi quei veli dagli occhi e andate oltre le differenze. È vero che ha gli occhi scuri, non chiari come i nostri, ma sono occhi, semplici occhi no? E forse non respira? E non prova dolore se lo ferite? E non ride se lo solleticate? Possibile che debba essere una Bambina a vedere tutto questo? Possibile che persone che si definiscano mature non lo vedano da sole?” Il silenzio mi avvolse. Nessuno mi guardava.
 Alla fine, fu Nonna Grace ad avvicinarsi per prima. Titubante, ma priva della faccia da mastino affamato che aveva avuto fino a poco prima. Prese per mano il ragazzo, gli sorrise titubante e infine tirò fuori uno dei suoi soliti sorrisi da nonnina quando il ragazzo scuro le sorrise di rimando, paura scomparsa di fronte all'accoglienza. Così scoprimmo di non essere i soli al mondo. Così sapemmo che quelle montagne si potevano scavalcare, e che c'erano occhi neri, castani, verdi oltre che azzurri. Che esistono capelli rossi come fuoco o neri come pece. Che la pelle non è solo chiara, ma anche marrone, gialla perfino. E capimmo una grande lezione che solo gli occhi innocenti di una bambina erano riusciti a scorgere nitidamente: che l'uguale e il diverso sono solamente le due facce della stessa medaglia. Che l'una non potrebbe esistere senza l'altro. Che diverso non vuol dire cattivo. L'aspetto è quello col quale siamo nati, ma è il nostro cuore che conta. Mai avevamo davvero capito l'uguaglianza prima di scoprire la differenza.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010