Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
10ª edizione - (2007)

Tre uomini in banana Ispirato al romanzo "Tre uomini in barca" di Jerome K. Jerome

Ricordo ancora l'aprile del Duemilasette, io, Diego, Stefano e il tacchino ribattezzato per l'occasione Montmorency.
Stavo in biblioteca a Cusano Milanino a sfogliare le pagine di un libro sull'euristica cercando di prevedere il nostro futuro immantinente, ignaro della catastrofica riuscita del nostro piano insano e sconnesso, un piano dai caratteri improvvisati. Sapevo che sarebbe stata questione di istanti e quando vidi Diego varcare la soglia della biblioteca vestito da banana gigante, sapevo con certezza assoluta come si sarebbe risolta la mia ricerca euristica: con un vestito da pomodoro. Seguii senza esitare Diego, e all'uscita trovai Stefano già trasformato in una fragola. Non rimanevo che io solo, ma ci arrivai: raggiungemmo casa di Diego e mi spogliai indossando la calzamaglia verde e la magliette della salute; poi vestii i miei panni di pomodoro.
Ma non partimmo. Il pomeriggio presto era così afoso che ci risolvemmo nello sdraiarci un po' sul divano a giocare a ruba mazzo. Verso le tre, però, ci accorgemmo dello spirare continuo di una brezza leggera proveniente da nord. Così ci preparammo: "Chi ha portato il cibo?" chiesi risoluto come un ammiraglio. "Tu" mi rispose Diego risoluto come un ammiraglio. Allora io chiesi, ancora più ammiraglio: "Chi ha portato da bere?" e mi rispose Diego ancor più risoluto di un ammiraglio risoluto: ” Io”. Scocciato dalla scena da sottomarino russo in avaria Stefano estrasse una lista da un cassetto e la recitò: "Cibo: c'è; da bere: c'è; tabacco per chi tabacca: c'è; razzi di segnalazione: ci sono; bandierine giapponesi: ci sono; stereo da viaggio: c'è; asciugacapelli: c'è; remi gommati: ci sono; Montmorency: … manca."
L'ansia generale! Ci eravamo dimenticati di fare Montmorency! No! Un così bel piano non architettato nei minimi dettagli andato in fumo! Ma non ci scoraggiammo: Diego prese del cartone e in quattro e quattro otto: habemus Tacchino di Cartonem! E alle tre e dieci, pronti, partenza, via, capimmo che era troppo tardi, così ci spogliammo e tornammo alle nostre occupazioni, convinti che oramai fosse passato il tempo propizio per partire. Il giorno dopo però eravamo pronti per la partenza. Il cielo era terso, ma non così scevro da nuvole da sembrare un cartonato, la brezza leggera ma non così leggera da non aiutarci nello sforzo e il sole era caldo ma non così caldo da accaloraci. Insomma, tutto non era così tanto, né così poco, ma giustamente e inconsapevolmente a metà; ma non la metà netta, dove non si sa più chi è bianco, chi è nero e chi è salomonico, bensì la metà sfumata dove non si sa comunque chi è chi, ma si sa che per questo nessuno ha colpa e ci si offre volentieri un succo alla pera. Ora però devo raccontare esattamente cosa facemmo: noi recuperammo una barca in vetro-resina, poi ci attaccammo delle ruote, delle quale le posteriori erano collegate da una forcella saldata non si sa come. Con questo miracolo dell'ingegneria casalinga decidemmo di dare l'assalto alla città di Milano. Per cui una volta nominatala da un lato "Mo' basta veramente però, basta!" e dall'altro "Banana Olé!" la varammo e la mettemmo in strada quel sabato d'aprile di una Cusano Milanino d'aprile, quando il mondo ci aspettava senza saperlo.
Montammo nella barca, Stefano innanzi, Diego nel mezzo e io in coda. Prima di partire attaccammo le bandierine del Giappone e sistemammo Montmorency sul fondo. Eccoci: alzammo i remi poi li puntammo tutti sul terreno e al grido di "Oh la Peppa!" iniziammo a spingere come gondolieri dando il via al nostro viaggio.
Dopo venti minuti arrivammo nell'ameno comune chiamato Bresso, patria del mio dentista e territorio dell'83/; qui scattò la vera sfida quasi OMICIDA: scontrarci con l'anziano signore in sedia a rotelle. Entrambi fermi al semaforo di fianco alla R'nasc'Ente( un nuovo centro commerciale americano all'ultima moda). Il semaforo rosso palpitava, scalpitava addirittura tale era la tensione. "Oh, che tensione", diceva il semaforo. Quando divenne verde, lo scatto bruciante del vecchio Gino (nome di invenzione per coprire l'arzillo vecchietto che dopo si scoprirà aver fatto uso di sostanze illegali quali il bianchino spruzzato Campari), lì per lì ci lasciò abbacinati, ma non tardammo nella curva davanti alla Chiesa a superarlo. Il vecchietto però non ci dava tregua e mentre noi sincronizzavamo meglio i nostri sforzi, tirò fuori la pozione rossiccia: il bianchino. E ci avrebbe completamente seccati se non si fosse accorto della pericolosissima vicinanza al quartiere Niguarda, presso il quale aveva ottenuto una condanna in contumacia per frode, spaccio di bianchino spruzzato Campari e ricettazione di sedie a rotelle false. Così si vide costretto a frenare bruscamente e a invertire direzione con una curva al limite del confine.
Vittoriosi tirammo avanti allacciandoci con un lazo per struzzi al tram numero 4, ricavandone una piacevole crociera ristoratrice.
Ma, questo espedientuccio imparato dai cacciatori di cacciatori di frodo dell'Oceania non era eticamente corretto, così sciogliemmo il nodo a proseguimmo a braccia, fino a piazzale Maciacchini, nel quale iniziammo a ricevere i dovuti onori. Infatti fermi al semaforo un gruppo di ilari senza tetto, dalle panchine su cui erano seduti, si avvicinarono alla nostra imbarcazione: "Cos'è questa?" chiese uno di loro con voce mal ferma; "Una barca" risposi io con voce malferma; "Pensi che il mare oggi si manterrà buono?" ribatté dopo aver osservato il piazzale per un paio di secondi "A me pare di sì, ma solo per la mattinata" gli dissi dopo aver anch'io osservato il piazzale; "Quindi dici che nel pomeriggio ci sarà un po' di maretta?" mi chiese ancora dopo aver scrutato ancora più intensamente il piazzale. "Peggio" risposi io. "Ci terremo pronti" disse. "Ci conto" dissi. Poi ripartimmo spediti ma rilassati.
Fatto quel gran canale di via Farini ci trovammo davanti al più intenso pericolo: il ponte. Il ponte richiedeva sforzo muscolare, energia, prontezza atletica, altissime doti di cui noi eravamo drasticamente sprovvisti. Ma ciò non ci scoraggiò e affrontammo con forza e coraggio il principio della salita. Purtroppo però troppo era il dislivello, troppo il nostro peso, rischiavamo di perdere per sempre i nostri più rosei sogni, le nostre speranze, i nostri… Ma! All'improvviso una forza misteriosa ci sospinse verso l'alto veloce, sempre più veloce! La brezza rinfrescante ci inebriava, il sole dietro alla stazione Garibaldi ci galvanizzava! Eravamo a velocità mai sperimentate prima da uomini su di una barca a forma di banana! Ma quale forza ci poteva sospingere così in là? Quale nuova energia emergente ci poteva elevare a quelle altezze? Ci voltammo e nell'esatto istante capimmo parte delle forze cosmiche che guidano il mondo: i giapponesi. Sette giapponesi con gli occhiali anni Sessanta sulla cinquantina, vestiti di tutto punto e con la valigetta sotto il braccio, ci stavano spingendo! E, purtroppo, non ci fu concesso di ringraziarli se non da lontano, sventolando le loro bandierine, mentre la banan-barca scivolava leggera verso Sant'Antonio. Ma da lontano, i giapponesi carichi di saggezza ci svelarono un'altra legge cosmica: sventolavano fieri e coraggiosi del bianchino spruzzato Campari.
Ma questa è un'altra storia. Noi intanto arrivammo incolumi all'arena. Lì, ci fu un'allegra conversazione con dei podisti che furono molto stupiti dalla nostra presenza, come molto stupiti furono i primi automobilisti del sabato, e anche i gestori dei bar e dei tabacchi; e anche i padroni dei cani e gli impiegati dell'Amsa. Stupita era anche la volante dei carabinieri che ci chiese d'accostare, ma furono sorpresi quando videro al nostro seguito un gruppo di podisti, di automobilisti, di allegri senza tetto, di orde di giapponesi, di gestori dei bar e dei tabacchi, ma anche di padroni di cani e di impiegati dell'Amsa, così la pattuglia non ci fermò più, anzi ci scortò! Prima fino al Piccolo Teatro di Milano, stupendissima struttura! Tempio di incommensurabile finezza intellettuale! Nugolo di scintillio internazionale! Di altissima importanza storica! E belli, bravi e simpatici! Dove un gioioso gruppo d'attori si unì alla compagnia errante! Poi ancora! Circensi festanti, metalmeccanici, insegnanti, tranvieri (i miei preferiti), taxisti (ebbene chi mi conosce sa che sto facendo un grande sforzo), odontoiatri, otorinolaringoiatri, anatomopatologi, ministri della Chiesa Valdese, imbianchini, postini, maestri di tromba e petrolieri! Tutti in festa, in giubilo, cantanti e festanti, condividenti e ringrazianti!
Quando però, in piazza Cordusio, il Misfatto: l'assessore alle Banane!
"Tutti fermi, disse, non può continuare questa parata! È illegale! Illegalissima!"
"Perché? Rispose tutta la parata in coro."
"Perché manca il timbro per lo sfruttamento e la rielaborazione del tema delle banane!"
"E come si ottiene?, chiedemmo a grandissima voce."
"Basta chiederlo."
"Ce lo può dare?"
"Sì."
Detto e fatto ci appose un timbro e dal silenzio burocratico passammo al grido da parata. E via verso il centro Duomo! Dove avvenne l'ultima fase.
Ci fermammo sotto la statua del Buon Napoleone, e lì chiesi il silenzio a tutti che ottenni con estrema difficoltà. Una volta ottenutolo scendemmo dalla barca e lenti e marziali ci portammo al centro della piazza, dove, con gesto lento e meditato sollevammo il tacchino di cartone e lo apponemmo su un palo.
Nessuno capì. E in realtà non c'era da capire: così, nel silenzio né carne né pesce urlammo: "Fiesta!".
E tutta Milano proruppe in un boato e poi in una festa che non si vedeva da… da… non è che Milano sia mai stata tanto festaiola…
Ma che ci vogliamo fare.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010