Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
7ª edizione - (2004)

Le Invasioni Barbariche

Dopo aver visto il film, è stata dura togliermi di dosso quell'immagine. Con le mie pupille ripercorrevo ciò che le sue avevano visto in quel corridoio stretto e buio, laggiù, nel magazzino di una chiesa: un marasma di intrichi polverosi, tetri e nostalgici come la cantina puzzolente di naftalina dei miei nonni. Soltanto, al posto di vecchie cianfrusaglie e riviste sbiadite, trovavo oggetti ormai in disuso, un tempo utilizzati dai preti nelle messe domenicali o durante le processioni. Calici asciutti, che una volta traboccavano di vini; statue di santi trucidate da una lenta corrosione; madonnine di ceramica dalle dita scrostate, che giacevano scomposte contro il muro, come vecchie dive del cinema che fanno ciondolare lente il proprio corpo ingombrante, non ascoltando altro se non l'eco dei loro passati successi.
Nel film, la giovane davanti alla quale si apre questo patetico scenario, che per mestiere fa la venditrice d'aste, deve ricercare, in mezzo a quelle meraviglie in decadenza, quel che ancora può valere qualcosa sul mercato. Ma la ragazza, ed io con lei, fissa indifferente ogni cosa. Infine, ecco la sentenza: "Mi dispiace, non ce ne facciamo nulla, non sono prodotti richiesti dal mercato internazionale...".
Tutte quelle madonne tristi non le comprerebbe davvero nessuno, figuriamoci quella schiera di calici sghembi. Eppure, spinta da un moto di vana rivendicazione, come se stessero bruciando davanti ai miei occhi tutti i ricordi contenuti nella cantina dei miei nonni, mi sembra che in quel magazzino ci sia molto di più. Quegli oggetti, scartati dalla spietata legge del mercato, sono un documento della nostra cultura religiosa, e popolare, testimoniano la quotidianità di cinquant'anni della nostra storia; come ignorare questo fatto?!...
...Può la storia rinnegare se stessa?
Lo storico greco Polibio negava alla storia l'immobilità e la capacità che ha il corridore di concedersi una breve sosta durante il tragitto, per rimuginare sulla strada appena percorsa. Nella storia dell'umanità, e così in quella, ben più breve, di ogni uomo, è prevista una sola direzione: la progressione.
Un magmatico turbinare in avanti attraverso forme sempre diverse, stupiti ogni volta di vedere parti di noi ormai morte, amori perduti, infanzie superate, gioie di un istante che lasciano il posto a intime torture, staccarsi dal nostro corpo e scivolare via come pelli di serpente mutate. A questo proposito, sempre Polibio, aveva ai suoi tempi offerto una considerazione: il corso della storia, e a mio parere anche quello della vita umana, è una continua perdita di qualcosa che si è vissuto, una continua sconfitta, una continua lacerazione. Allegoricamente parlando, un eterno morire.
Ma, come ci insegna l'esperienza, è anche rinascita, poiché laddove vi è morte di qualcosa, allora c'è anche contaminazione, e quindi vita. Assistiamo allora, eccitati e un po' interdetti, al miracolo di nuove fecondazioni; da un petto ferito non può che germogliare una nuova emozione, una nuova meta, una nuova passione.
A tutto ciò pensavo, mentre io e la venditrice, volgendo le spalle a quel museo di oggetti morti, tornavamo, lei nel film, io nella vita reale, al nostro presente di nuovi miti e credenze.

Credo che questa sia l'immagine più bella ed emblematica del film Le invasioni barbariche, perché in essa ritroviamo racchiuso, ritrovo racchiuso, tutto il senso di ciò che prima ho chiamato "storia". Da una parte la morte, la perdita di qualcosa, simboleggiati da quelle statue accatastate nel magazzino, divenute ormai inutili; dall'altra la vita, la rinascita, simboleggiate dalla venditrice, giovane e perfettamente inserita nella nuova era.
Il titolo del film non è certo casuale, come suggerisce in un suo articolo il giornalista Michele Serra; la vicenda è quella di un malato terminale e di come egli affronta le sue ultime settimane di vita, in bilico tra i fantasmi di un passato che non vorrebbe mai lasciare e la consapevolezza di quanto tutto ciò sia già morto ( condizione esplicitata dalla dolce eroinomane che si prende cura di lui, che dice al vecchio morente: "tu non hai paura di lasciare la tua vita. Tu hai paura di lasciare la tua vita passata, ma quella è già morta, e neanche te ne accorgi!")
Sullo sfondo, lo scenario dell'attacco terroristico al World Trade Center, battezzato nel corso del film appunto come le nuove invasioni barbariche. Tra questi due avvenimenti, apparentemente così distanti, l'uno pubblico, l'altro intimo e privato, figura tuttavia, un denominatore comune: il tema della morte, della vita che continua incessante. Della storia, dunque.
Il vecchio, attorniato dagli amici, assiste con commossa partecipazione alla fine di se stesso e cerca dei segnali, tra quei volti, che gli ricordino il suo "io" perduto.
Allo stesso modo, la cosiddetta cultura occidentale, con i suoi miti, con i suoi ferrei ed inattaccabili dogmi, paralizzata dalla paura del diverso e tutta accartocciata su se stessa come una foglia d'autunno, se ne sta lì, incapace di reagire all'avvento sulla scena internazionale di nuove ideologie, di nuove forze che, per quanto violente ed inaccettabili, sono necessarie al rinnovamento della storia. In fondo, a ben pensare, regimi consolidati ed egemoni sono sempre stati costretti, prima o poi, a fronteggiare l'arrivo di nuovi barbari: chi ha accettato la contaminazione, ha imparato a vivere sotto forme diverse e non per forza peggiori. Chi ha deciso di non piegarsi al compromesso, è perito in battaglia.
Struggendomi, nel tentativo di dare un ordine razionale alla miriade di riflessioni suscitate in me dal film, sentivo che ancora mancava qualche elemento da analizzare, qualche contraddizione da sciogliere.
Il vecchio era in procinto di morire.
Relegato in un letto d'ospedale, cercava di risalire il lento fiume della propria esistenza; un matrimonio adulterino, un rapporto amorfo e conflittuale con il figlio, una carriera in fondo piuttosto banale, l'amore smisurato per le donne, l'adesione di volta in volta alle ideologie rivoluzionarie di tendenza.
Il tutto senza riuscire a rintracciare, in mezzo al gran pandemonio che può essere una vita intera, il vero e sincero Se stesso; non arrivava a comprendere ciò che la maggior parte delle persone non considerano, e cioè che il nostro io, come rappresentazione univoca, limpida ed inequivocabile di noi stessi, semplicemente, non esiste.
Se il nostro arrancare nel mondo, riflesso dell'andamento della storia, è un susseguirsi di mutamenti, di morte e di rinascita, di contaminazioni, di mille sfumature differenti tali per cui non vi sarà mai un solo colore a simboleggiare la nostra essenza, allora la ricerca, per cui tanto si dispera il vecchio protagonista, che è poi la nostra stessa ricerca in quanto uomini, che è poi la mia stessa ricerca in quanto essere umano, è vana e cieca già in partenza.
Che triste conclusione! È qui che sussiste il mio dubbio; a cosa servono tutti quei ricordi che, come artigli affilati intinti nel miele, scavano ostinatamente nella carne e nel cuore del vecchio, facendolo piangere e al contempo quasi soffocandolo con la dolcissima litania della nostalgia? E a noi, a cosa serve, dunque, ricordare?
E soprattutto, a cosa è servito essere stati felici, disperati, comunisti, minimalisti, ingrassati o dimagriti, se il ricordo non ci aiuta a dare un senso ed un'identità a ciò che in definitiva ora siamo e che per tutta la vita invariabilmente siamo stati?
Forse, il finale di questo splendido film, può fornirci, ancora una volta, una risposta.
È soltanto guardando in faccia i suoi fantasmi uno per uno, rivivendo le tappe salienti della sua vita attraverso il ricordo, che il vecchio e saggio professore può, finalmente, morire di una morte lieta, con un sorriso sulle labbra. È come se egli, supportato dalla metodica e fedele vicinanza di amici e parenti, avesse raccolto, in ogni tappa di questo viaggio a ritroso nel tempo, quel che ancora non doveva morire con lui, quel che ancora era destinato a rinascere sotto altre forme: l'amore per il figlio e per la figlia, ad esempio.
Mi viene in mente come forse, la persona che volta le spalle al magazzino gonfio di vecchie cianfrusaglie, non sia la giovane venditrice, né io nella mia fantasia, bensì proprio lui, il vecchio professore. Egli volta le spalle alla vita.
Al contempo però, potremmo essere via via tutti noi: ogni volta che abbandoniamo qualche cosa che ci appartiene, che ci caratterizza, sulla strada della nostra storia; e ogni volta che ciò accade, impercettibilmente, al mutare della nostra anima è come se mutassimo pelle. I lembi dell'involucro, che fino a pochi istanti prima ci proteggeva dal mondo, si sfasciano sul nostro corpo di serpenti dal manto appena cresciuto, per poi ricadere a terra.
L'immagine che ci regala il film è quella di un mondo che è sempre stato violenza e morte. Morte di un uomo come può essere il protagonista di questa storia o crisi violenta di un'epoca come può essere l'11 settembre per la civiltà occidentale; ma è anche quella di un mondo dove lasci sempre un po' di vita dietro di te, come una scia fatata.
Poco prima di spirare, giunge al vecchio un messaggio della figlia:
"Sai papà, non so come tu abbia fatto, ma sei riuscito a trasmettermi tutta la tua voglia di vivere".
Ecco. Immagino che sia questa la scia fatata lasciata dall'anziano professore.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010