Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
6ª edizione - (2003)

Il sogno del viandante
di Daniela Monti
Menzione d'onore

Depone lo zaino, entrando, e non saluta. Chiude gli occhi, scuote la testa alle voci che giungono indistinte; silenzio, ha bisogno di silenzio per uniformare l'esterno e l'interno, per colmare la materia e svuotare l'inesistente, per trovare quel poco che ancora rimane... poi si alza. Dirige passi lenti e incerti verso la cucina e siede, inghiottendo boccone per boccone amarezza insapore, biascicando parole senza suono. Si scusa, chiede di poter tornare in camera a studiare, a riposare. E chiude la porta dietro di sé, dietro le spalle. Troppe ore sono trascorse in quella stanza un po' buia, dove calamaio e inchiostro alleviano dolorosa pesantezza e sprigionano sulla carta gocce nere che inquinano l'anima. Traccia segni, incide versi, scolpisce storie inenarrabili e sente di non aver compiuto nulla; poi alza uno sguardo all'orologio, alla pendola che oscilla. Avverte la colpevolezza dell'ozio, vede accorciarsi davanti agli occhi l'interminabile cammino delle Ere che sembrava un eterno viale alberato. Non è così, lo capisce solo ora mentre nasconde con la mano uno sbadiglio e si stende sul letto: ci sono troppe foglie secche sulla sua strada, troppi rovi e rampicanti si affannano per impedirle il cammino, e non c'è nessuno che la inciti ad andare avanti, nessun premio che la attenda al di là della strada, nulla. Getta un'occhiata alla mezza pagina di appunti dell'ora di religione, decine di citazioni annotate e poche che veramente contino. Poi lentamente scivola, senza saperlo, nel sonno. Ed ora è sola, con una bisaccia e un bastone ai piedi.
C'è quella distesa attorno a lei, che inizia lì, nel punto in cui siede, e continua altrove. Fin dove non lo sa, non può vederlo. Troppo grande, troppo vasta perché lei possa scorgerne la fine. Si sarebbe aspettata, forse, di trovare qualcosa; un villaggio, seppur isolato, di quelli con i balconi ornati di gerani appassiti e che di sera, nelle notti senza stelle, si illuminano di fuochi spenti; o un cane, come se ne vedono tanti, legati ad una catena che si divincolano, in preda al tormento delle zecche; o un albero, almeno, che volgesse orride dita al cielo. Ma neppure una pianta può dimorare in quella landa uniforme, perché la terra è brulla, quasi incolore, percorsa da tumuli e buche come se la sua intimità avesse già tremato, più volte, squassata da tumori e ferite. Essa prosegue all'infinito, e non vi è alcuna separazione fra il suolo e la linea dell'orizzonte, e il cielo a stento distinguibile dal resto. Si alza e cerca di camminare, e si accorge che quei passi sono muti quanto pesanti. Rammenta un altro tempo in cui ha desiderato correre e addentrarsi in nuovi mondi, nuove dimensioni, nuove percezioni mentre adesso è lì, senza un alito di vento a piegare la sua fragilità.
Sola. Sola con la bisaccia e il bastone che qualcuno, quella mezza pagina, forse, le ha lasciato in eredità; per cercare, l'una, e per appoggiarsi, l'altro. Non sola, in fondo. Non fino a quando potrà affilare il suo coraggio con l'esperienza e la sua sete con la conoscenza dell'infinito. Ora sa che non cesserà mai di avanzare, perché non desidera fermarsi nella dimora del buio. E finché tesserà parole e ricordi, neppure le stelle smetteranno di brillare; finché si fermerà ad ascoltare le storie di antichi passati, ci sarà sempre tempo per il futuro.
Si desta, apre gli occhi quando è già mattino. Ma questa volta sorride e si mette lo zaino in spalla, uscendo.

Da tempo l'uomo occidentale ha bruciato la bisaccia e il bastone del viandante, con la sua commovente attitudine alla domanda. La dimora dell'uomo non è più l'orizzonte, ma il nascondiglio, dove non incontra nessuno e dove per ciò comincia a dubitare della sua stessa esistenza.

(Tarkovskij)


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010