Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
6ª edizione - (2003)

Non per nulla sono quello che sono

Era sera, quasi notte.
Due persone.
Una stanza sporca, assurda.
Quello in piedi fumava. Si chiamava Nero.
Quell'altro era in piedi anche lui, ma non fumava. L'altro, Nero, lo chiamava Bianco.
Bianco e Nero andavano d'accordo, erano avvocati.
Aspettavano una persona da un'ora. Un'ora di noia.
Poi, il campanello suonò la marcia trionfale, quella dell'Aida. Entrò un uomo. Un uomo comune, faccia triste, monticello di pancia. Aveva l'aria di uno che ha vinto una fortuna alla lotteria e non lo sa. Né lo saprà mai.
Era arrivato in ritardo, si tolse gli occhiali, guardò l'orologio.
"Siate brevi, ho solo cinque minuti. "

Nella stanza di fianco squillò un telefono.
Una mano alzò la cornetta e rispose.
"Mancino. Destro Mancino. "
Quella mano era la mia. Anche Destro Mancino ero io. Di là, una voce di donna. Scempiaggini.
"No, signora, non la prendo in giro. Non è una battuta. Mi chiamo davvero così. "
Mi spiegò il suo problema.
"Mi dia cinque minuti" conclusi. Poi salutai, come mi avevano insegnato i miei genitori. Risolvevo i problemi degli altri. Questo era il mio lavoro: un lavoro duro. Come se non avessi già i miei di problemi.
Anche il mio ufficio era sporco, assurdo. Di fianco, i miei vicini erano una strana coppia vecchio stile d'avvocati. Gente strana e grigia non mi piacevano per nulla.
Squillò il telefono. Uno dei tre. Alzai la cornetta. Una delle tre.
"Pronto. Mancino. "
Silenzio.
Il telefono continuò a squillare. Maledizione! Era l'altro. Mi sbagliavo sempre. Quello di destra. Sinistra e destra, dritta e manca...
Ripetei tutto.
"Pronto. Mancino. "
"Salve, sono un santo. "
"L'avevo riconosciuta per via dell'aureola..."
"Ma siamo al telefono! "
Tamburellai le dita sul tavolo. Ero insofferente. "Mi dica tutto. "
"Sono un santo. "
"Lei paga la chiamata" dissi.
Riattaccò.
Il mio era un lavoro duro. Mi serviva una pausa, anzi una vacanza, anzi...
"Mancino. "
"Ciao..." era una bella donna. Non chiedetemi come potessi saperlo, lo sapevo e basta.
"Mi dica tutto. "
"Non so, oggi... mi sento come... diversa. "
"Capisco. "
"Sì, diversa..."
Aveva una voce che conoscevo. Udii il cigolio del tram alla curva. Quella voce era la voce della donna della mia vita.
"Ci conosciamo" chiesi.
Mise giù. Improvvisamente.
Quella voce...
La prima? No. La seconda? No. La terza? Non avevo avuto una terza moglie. Non era una delle mie mogli o ex mogli o che so io. Stavo impazzendo? Non mi risposi. Mi bastavano le domande. Erano le domande che costruivano il mondo. Erano le domande che...
Accesi una sigaretta. Il fumo nuovo riempì la stanza densa di grumi di fumo vecchio.
Amavo il mondo. Amavo il mio lavoro. Amavo le mie sigarette.
Staccai.
M'alzai.
Bussai.

Mi aprì Bianco. O nero.
"Sei Bianco? "
"No. "
"Sei Nero? "
"No. "
Ci guardammo. Chi era chi, allora. Ci guardammo. Chi?
Ci guardammo per cinque minuti. Poi mi seccai.
"Chi sei? " Cinque minuti per trovare la domanda giusta. Doveva darmi la risposta in un tempo record.
"Sono Nick Belane. "
"L'investigatore privato più dritto di L.A" domandai.
"No, il tuo vicino. Tutto bene, Destro? Vuoi un po' di caffè? "
"Dallo alle piante grasse. "
Ero stanco. Scocciato.
Avevo sbagliato ancora. La porta di destra era la sua. A sinistra c'erano gli avvocati. Destra e sinistra. Dritta e manca. Non ci capivo niente. La destra è la mano con cui scrivi. Maledizione! Fosse semplice. Scrivevo al computer. Non firmavo assegni. Pagavo in contanti. Avevo un sacco di debiti e due matrimoni naufragati e a nessuno fregava più nulla di me. Andavo per strada e guardavo le vetrine. Prezzi troppo alti. La mostra fotografica al piano di sotto era uno schifo. E scusate se parlo solo di me. Sono anche egoista. Egocentrico. Destromancinocentrico.

Era poco tempo dopo.
Tornai in ufficio. Ripresi a lavorare.
Mi chiamarono. Squillò il telefono. Risposi.
"Ciao. "
"Ciao. "
"Sono ancora io. "
"Anch'io. "
Era quella donna. La sua voce era di miele e di sabbia.
"Ti amo" disse.
"Anch'io" risposi.
Seguì un silenzio che non era imbarazzante. Un silenzio bellissimo, ineffabile. Di vino e di ossigeno. Di rose e di candide lenzuola.
"Non so. Volevo dirtelo. "
Tacqui, per un istante.
"Volevo solo dirti che oggi è per me una giornata diversa, diversa da tutte le altre e che era così semplice e insieme così stupido essere tanto felici..."
Non ero sorpreso.
"Lo so. È il mio lavoro" dissi.
"Scusami. "
Fuori, la notte bussava alla mia finestra. Voleva entrare. Un attimo...
"Non devi scusarti. "
"Fuori la notte è di stelle" mi disse.
"Voglio incontrarti. "
"No" mi rispose.
Avrei voluto vederla. Volevo guardare i suoi occhi. Volevo poterla prendere per i polsi. Poterla baciare.
"Chi sei? " Volevo sapere. Volevo capire. Uno scherzo? La mia follia? Un angelo? Una donna?
"Chi sei? " ripetei.
"Ti amo" disse una volta ancora.
"Anch'io. "
"Non ti basta. " Mi bastava? No, certo che no.
"Chi sei? "
"Sono Bella. " Bella. Bella. Tornarono i ricordi.

L'avevo baciata ancora, fortemente, sulle labbra. Una parola, mozzata sul nascere, prima di scendere nel metrò e lasciarla per sempre. La mia mano s'era persa nei suoi capelli. Era stata una bella avventura e le sue lacrime splendevano d'argento. Mi sarei ricordato il suo nome per qualche anno, dopo mi sarebbe rimasto il viso, gli occhi poi e le lacrime, e infine, neppure più quelle. Sarebbe tornata una sconosciuta, e magari me ne sarei innamorato ancora una volta. Una sera, forse.
Si diceva che fosse una ragazza senza peccato. Ero d'accordo.
Si diceva ch'io fossi peccatore poeta uomo amatore folle corrotto fortunato. Ero d'accordo.
Poi fu l'addio. S'allontanò, correndo, come tante. Una mano a coprirle il viso. Era stata mia...
Disperata.
Perduta.

"Addio, ancora una volta" disse, con quella voce.
"Ciao. "
Era andata. Tutto era accaduto troppo in fretta. Come quell'altra volta.
Avevo mani lunghe e fini, modellate dalla sabbia del tempo che scappava dal pugno. Con quella mano abbassai la cornetta. Una mano che aveva fumato sigari, che aveva aperto cassetti, che poteva stringersi in un pugno o aprirsi per schiaffeggiare.
Aprii il cassetto e presi un album di fotografie. Non pensavo neppure che potesse essere ancora lì. Non l'aprii. Non volli guardarlo. Il passato era là dentro. Cambiavo anch'io.
Andai alla finestra, la sollevai. Era una notte fredda. Guardai la città sotto di me. Donne e uomini che andavano al cinema, donne e uomini che pregavano in chiesa, donne e uomini che mi guardavano mentre ero alla finestra e li guardavo, donne e uomini che si baciavano.
Qualcuno guardava il cielo, non bisogna avere paura di parlare di stelle.
E la notte era davvero di stelle.

Andai allo specchio. Avevo uno specchio. Non credevo che avrebbe potuto servirmi a qualcosa. Mi guardai. Era la prima volta. La prima volta nella mia vita.
Mi guardai ancora.
Occhi di vetro e di proiettile. Rughe scavate dagli incubi e dai goffi pensieri. Occhi, ancora. Occhi di vernice sbiadita, occhi patinati...
Ero cambiato. Ero cambiato. Ero cambiato.
Uscii.
Là fuori, sul pianerottolo Bianco e Nero salutavano un loro cliente: un industriale coinvolto in qualche brutta faccenda. Un uomo comune, faccia triste. Aveva l'aria di uno che ha vinto una fortuna alla lotteria e non lo sa. Né lo saprà mai.
Uscii.
La vita era bianco e nero.
"Non per nulla sono quello che sono" mi dissi.
Ed io mi sentivo diverso. Ero diverso. Per la prima volta.
Ero.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010