Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
4ª edizione - (2001)

Follia

Primavera. Sole e fiori: adoro quel clima di tiepida e incalzante serenità perché da sempre ritengo che umore e meteorologia siano anime gemelle, l’uno zucchero, l’altra caffè. Mi era stato detto che la Primavera era la stagione della rinascita, della voglia di fare e della vita, così mi sembrava che fosse, farfalle da vermi e frutti da vecchi alberi.
Ora, finalmente all’aria aperta, la pelle diafana soffre di amabile piacere lo stuzzicante formicolio della palla solare sul corpo: sono in maglietta e bermuda, ciabatte ai piedi, alle mie spalle, incombenti, le entrate serrate, le finestre sbarrate, le stanze asettiche, le barelle e i legacci. Loro, le loro mascherine, medicine pasticche intrugli flebo. Soffitti bianchi fissati per ore, luci al neon negli occhi, miraggi di primavere lontane, qualche fiore sul comodino a ricordarci che ce l’avremmo potuta fare. Davanti a me un cancello da superare, acciaio. Oltre il mondo. Un fiore da raccogliere, un odore nuovo, un ricordo, forse, ne avevo ancora?
Mi vedo nella porta metallica: sotto gli occhi serrati dalla luce, le piccole pupille infuocate assieme al viso affilato e lattiginoso marcano risaltandoli due profondi solchi grigiastri. Li immagino senza distinguerli nitidamente, l’acciaio deformante indovina i contorni, ma per il resto basta la consapevolezza di ciò che ho passato. Uno scatto. Un gesto per aprire, uno per chiudere. La strada e gli uomini, una donna con la carrozzella – mi fissa stranita e accelera il passo –, un uomo che sta per attraversare, lo affianco. L’uomo mi guarda: larghi occhi e cravatta alla gola. Il nodo: strettissimo stropiccia il collo della camicia. L’orologio (lo sta guardando): stringe il polso ingrossando le vene. Ha in mano una valigetta.
Finalmente rumori, non più atmosfere di religiosa contemplazione e ovattata comprensione, non più ticchettii di orologi. Basta urla di sofferenza – ora le sento, loro e le pasticche, non le vuole, gola secca e denti consumati che sbattono gli uni sugli altri, sputi e schiaffi –, e finalmente urli di vita – ora li sento, là in fondo, la madre che chiama un bambino, un fioraio che regala una rosa, un clacson che mima le grida di un camionista, il traffico e gli uomini. Il mondo di cui non faccio parte.
Alzo le braccia e apro le mani, chino il capo e chiudo gli occhi, ordino i rumori nello spartito confuso di ciò che accade. Ascolto. Odio e amore le note della partitura, io l’estraneo direttore.
Un dolore: la testa scoppia e il corpo trema. Temo di essere ancora là, visioni di luci accecanti in occhi deboli. Mi appoggio al semaforo, l’uomo si guarda intorno veloce – sembra nervoso –, poi mi fissa. Ora lo vedo, si avvicina, ma è lui? Ha qualcosa in mano, mi blocca!
Mi sveglio solo, sudato ho fatto un incubo di cui non ho ricordo: un grosso fuoco, forse, un viso femminile, un coltello che taglia grosse fette di carne rossa. Sotto calde e pulite lenzuola in un letto morbido privo di ferraglia a impedirmi i movimenti: non sono in manicomio, la stanza è buia, confuso giro due volte su me stesso. Una voce: "D’accordo, allora la aspetto, sì, più tardi, troverà un caffè ben zuccherato e una piccola sorpresa. Faccia prima che può perché…" Silenzio: testa vuota: sento il sonno arrivare, avverto le grida delle ossessioni che lo accompagnano.
Apro gli occhi, sembrano passati due secondi, sudo ancora, soffitto in alto muro a destra. Sinistra: il nodo stretto di un cravatta. Più sopra: la faccia di un uomo. Semaforo, collasso: ora ricordo. Mi guarda, intanto, ma ha l’aria di essere concentrato sui movimenti del cucchiaino che tiene in mano. Uno, due, tre, quattro: da una parte. Uno, due, tre, quattro: dall’altra. Mi porge la tazza –indicandomi i cavalli e i fantini sigillati su di essa con strati di scotch perfettamente allineati – e mi sorride, bevo in un sorso e ricambio.
Cavalli e fantini: un quadro. Cavalli e foreste: un altro. Articoli ritagliati con cura in piccole luccicanti cornici, un calendario con la foto di un uomo che stringe una coppa e abbraccia il collo di un cavallo, una foto al centro della parete di due uomini che sia abbracciano. L’uno: ride, viso sbarbato e cerotto su una guancia. L’altro: ride, fissando il primo e afferrando, per un lato, una cartaccia in mano a entrambi. Scorro con gli occhi la parete, nient’altro, ritorno alla foto: è l’uomo che mi sta ospitando.
Lo sento parlare per la prima volta: dice qualcosa riguardo la fortuna che avevo avuto a incontrarlo, riguardo al fatto che dovevo riposarmi e che ero suo gradito ospite. Lo guardo di profilo mentre sistema un vaso di fiori di cui odoro la freschezza, afferma gioioso che l’estate di quest’anno è il periodo migliore per andare a raccoglierne, dopo uno dei frequenti temporali. Ho caldo: le finestre aperte, le persiane socchiuse. Afa: fuori diluvia.
Mi vedo nei suoi occhi: capisco perché l’uomo è tanto disinvolto e sereno mentre mi parla malcelando il suo indiscusso potere con una forzata vena ironica e dei sorrisi di circostanza. Mi vedo nelle espressioni del suo viso: un movimento diagonale delle fini labbra – disprezzo – camuffato da uno sbadiglio, un sopracciglio inarcato – disgusto – mascherato da un movimento simultaneo degli occhi verso la finestra, quasi che l’espressione fosse dovuta al tempo bizzarro.
Un ora dopo – lo so perché l’uomo sparisce ricomparendo ogni venti minuti a ricordarmi l’ora e a informarsi sulla mia salute – , gentile sibila con tono fermo: "mezzogiorno"; all’una sarebbe arrivata sua madre e alle tre circa un caro amico che non vede l’ora di presentarmi.
Ordina di farmi una doccia e di mettermi i vestiti che troverò sul letto appena uscito dal bagno, mi alzo – non mi reggo in piedi –, lo indica; entro e mi chiudo a chiave. Il bagno traspira fragranze di lavanda che le piastrelle bianche sembrano infondersi e amplificare, contaminando l’aria e avvolgendomi nel loro forzato candore: ho la nausea, frastornato dal mortale colore e da un odore che, marcato e forte, le mie narici non sono in grado di apprezzare.
Allo specchio: rosse labbra asciutte e screpolate fissano occhi gonfi che divorano narici stanche di annusare, un occhio si chiude – sto per svenire! – poi si riapre, cercandosi allo specchio tra mille altri uguali a lui, prima al fianco di una bocca sanguinolenta, poi sopra il capo raso per scrutare, dall’alto e sorretto da grosse ali d’angelo, le contraddizioni tra la triste incompiutezza della mia vita e la talvolta grossolana armonia della casa in cui mi trovo …
Sotto la doccia: sto meglio.
Mezz’ora dopo siedo solo e incravattato al tavolo della cucina mentre l’uomo, fischiettando, completa gli ultimi preparativi.
Passi di donna: il rumore secco dei tacchi sulle scale. Suona il campanello: la donna è arrivata.
Gli trema la voce: "È aperto", si gira e una lacrima gli riga la guancia sinistra, rotonda e rossa, mentre di scatto le muove incontro la mano per asciugarla, mirandomi di sfuggita e trattenendo un sorriso morboso. La boccetta che tiene in mano gli sfugge dalle dita grassocce, da essa cade della neve finissima che si disperde nell’aria, in trasparenza, per mimetizzarsi un attimo dopo, nella turgida innocenza delle piastrelle bianche. Avevo visto polveri simili in manicomio: una medicina?
Beve un bicchiere di vino e ne porta la bottiglia a tavola, con una mano, nascondendo simultaneamente con l’altra la boccetta in una tasca. "Le conviene bere acqua a pranzo, il vino potrebbe farla stare nuovamente male, lei è debole e non le conviene. Anch’io bevo acqua. Sono astemio. Il vino è per mia madre. Mi dia retta." Nasconde qualcosa in un cassetto.
Paura: in silenzio nel mio mondo mi isolo dai sinistri fantasmi di quella casa, ad osservare vaste praterie, erba che oscilla spinta dal vento e sole che abbronza, mite, spiagge rosate, come nelle immagini delle riviste su cui ogni tanto ci facevano sbavare.
Avverto solo il ritmico passo delle gambe e il suo sottile odore che si insinua tra i profumi della cucina, la vedo che attraversa da regina la porta e si avvicina sicura muovendo ampie falcate intorno al tavolo senza accorgersi della mia presenza: è imponente, ma il viso, pur triste e stanco e segnato, ancora giovane, ricorda di lei un lato più soave fuso ad una prorompente femminilità ostentata con grazia.
In realtà è un po’ volgare. Stringe una bottiglia di vino che porge al figlio, attende che la appoggi, disorientato, sul tavolo, al fianco della sua, e lo abbraccia forte occhi chiusi e viso disteso, mentre lui, occhi sgranati nei miei occhi, cerca il conforto della mia comprensione. Ha paura che qualcosa vada storto, è un uomo preciso: un trillo esasperato gli ricorda che la pasta è cotta: non vuole che scuocia.
Qualche frase di circostanza, l’uomo mi presenta come un caro amico e la donna si degna di salutarmi – la saluto educato –, e i due si siedono intorno al tavolo rotondo, madre e figlio, di fronte; io nel mezzo, occhi fissi sulle due bottiglie: "Un brindisi", interviene l’uomo in un imbarazzante silenzio, " ma io e lui" – mi indica – " ti facciamo compagnia con acqua, sai che sono astemio. Anche i miei amici lo sono. Gli amici che frequento non si divertono in questo modo. A bere e ubriacarsi. A spendere quei soldi che tu mi dai, e loro a spendere quelli che dovrebbero dare alle famiglie. La bottiglia è già aperta, serviti pure". Termina la frase con un filo di voce, dopo un inizio solenne, come sfuggendo al dialogo e prendendo a parlare con sé stesso.
La madre: " già, infatti, voi li spendete in cavalli e corse, i miei e quelli delle famiglie… gli uomini… comunque non ti preoccupare, sai che bevo volentieri anche da sola. Gli uomini…non bevono e comprano vino…". Si alza mentre parla, stappa la sua bottiglia e si versa nel bicchiere vino sino all’orlo. "Non hai soldi (sembra ironica), non hai l’abitudine di bere e vuoi che il tuo vino venga apprezzato da chi è abituato a bere vino. Che ingenuo, che sei, piccolo, sempre il solito".
La madre oscillava, sia con la voce che con il movimento – lento o frenetico – delle braccia, tra toni protettivi e rimproveri severi, continuando: "ho portato un vino speciale, e voglio, se non ti offende – si rivolge a me –, fare un brindisi solo con mio figlio" – gli versa due dita di vino nel bicchiere – " ripensando ai vecchi tempi, quando c’era ancora papà e vivevamo tutti insieme". Guardo l’uomo: pallido mi fissa attonito, cerca consolazione nei miei occhi, non riesce a spiaccicare parola naufrago dei suoi pensieri: è disperato.
Vino. La madre non lo beve. La polvere bianca: non è una medicina. Manicomio. Veleno! L’uomo vuole avvelenare la madre; la donna lo sa?
Meccanicamente afferra il bicchiere alzandolo al soffitto e incomincia a trangugiare senza aspettarla, mentre la donna, immobile davanti al piatto ancora caldo, non lo asseconda: i miei occhi e i suoi si incrociano nel suo bicchiere stracolmo, entrambi lo scrutiamo curiosamente: la donna non beve!
Un attimo. I nostri sguardi si uniscono per dirigersi insieme verso l’uomo. Inizia a tossire, il collo si gonfia, a bocca aperta cerca di far entrare più aria che può nei polmoni. Una pausa. Faccia rossa e affannata, occhi di chi non capisce. Riprende a tossire, la madre gli si avvicina cauta. Il suo vino: integro nel bicchiere.
Ha la faccia serena di chi sta per morire e spera, uomo senza speranza irretito dallo squallore della solitudine e dal vizio del gioco, di trovare, finalmente, la felicità di una placida contemplazione. La vedo: il suo viso cavalca i miei sogni, siamo fianco a fianco, ora, nel paesaggio di una vita felice che non riusciamo a conquistare.
La donna esce dalla cucina per ritornarvi subito con in mano una valigetta: la apre. Soldi, soldi, soldi. Due biglietti d’aereo.
Indifferente l’uomo sospira di un viaggio programmato e di una fuga con l’unico amico caro – forse l’unico e basta – , guarda me intanto, non la madre. Si vuole scusare, mi dice in un orecchio che io sarei stato la sua salvezza, " tua la colpa di tutto…affanno…tu l’assassino", ma che ora sono solo un amico perso.
"D’accordo, allora la aspetto…troverà…una piccola sorpresa". Ora ricordo: la telefonata, l’amico, la fuga. Io, il Cristo risorto che lo redime dal peccato: la sorpresa. Fissiamo la stessa allucinazione, oltre il vetro. L’uomo farnetica qualcosa alla madre, le parole filtrano dalla bocca impastata e accusano, lei era la causa di tutto, della morte del padre, era lei, l’ultimo legame con la realtà, lei che lo mantiene e lui che non aveva mai potuto farne a meno.
La donna sapeva tutto: per questo aveva portato il vino. Fredda calcolatrice tergiversa, ora, nelle movenze, intorno alla valigetta, felice della sua prontezza e del futuro che per sé immagina mentre il figlio crolla rumorosamente dalla sedia, si accascia sul pavimento, muore occhi chiusi e un soffio tra le labbra – la vita che lo lascia –.
L’aereo la sta aspettando: lei si siede. Aspetta qualcuno.
Un silenzio infinito. Guardo l’orologio appeso al muro: sono quasi le tre. Suona il citofono.
" Non vedo l’ora di presentarle una persona. Vedrà che la troverà simpatica, è un amico ed è sempre puntuale: sa che amo la puntualità. Vedrà che lo troverà simpatico. Alle tre, già, porti pazienza". Ricordo le sue parole, capisco il suo piano: l’amico, la fuga con la valigetta dopo la morte della madre, io il brutale assassino…
" È aperto" urla la donna quando lo sente arrivare. Si conoscono?
Entra in cucina: giovane e basso, ha la faccia di chi spera di vedere ciò che sino a un momento prima aveva solo potuto immaginare. Cammina veloce ma non è nervoso. Una smorfia: la mascella leggermente fuori asse che esercita i muscoli facciali, un cerotto su una guancia.
Un bacio affettuoso alla madre, un pazzo seduto a tavola, una valigetta, un morto sul pavimento. "Ti amo, amore; cazzo ma da quanto è morto?… Andiamo che l’aereo parte".
Mi guarda – sa già chi sono e qual è la mia funzione – e alza lo sguardo alle mie spalle.
Un ritratto. Di un cavallo: il viso dai lineamenti aspri si ammorbidisce per un secondo, anche i suoi occhi vagano fissi sull’animale tra un passato forse promettente e un futuro certo, malinconico ma felice.
Il cassetto! Mi sveglio dalla triste favola a cui avevo assistito e di cui era stato già scritto il mio ruolo, sino alla fine comparsa passiva, immagine sfocata e ingiallita di un uomo sfinito, ero io, a fare i conti con le mie illusioni, adesso, vedendo allontanarsi un sogno, in una valigetta un’oasi esotica e un po’ di riposo: un’altra vita!
Lo apro: piccola e nera, avvolta in un panno, mi sta chiamando e mi grida di impugnarla, affascinante e sensuale, armonica nelle misure e rotonda nelle forme; mi riesco quasi a specchiare nell’intenso colore della vernice da cui è coperta, tremano le mani che hanno paura di cogliere il fiore malefico e una felicità che si muove sempre più insidiosa tra gli incubi dei miei pensieri e percorre il corpo, accelerando il battito cardiaco. È il piano di riserva del padrone di casa: una pistola.
Ore: tre e quindici. La afferro e le mie mani trovano in essa la sicurezza della presa, nel suo potere distruttrice che mi ha ridato vita.
Ore: tre e diciassette. Il silenzio, dopo qualche gemito e l’esplosione delle pallottole avvelenate della mia ira e inseguite dalla velocità con cui nella mia mente si concretizzava la teoria fantastica.
Un’ora dopo sono in aereo, accompagnato da una valigetta: soldi, soldi, soldi, e una pistola, dal finestrino un mondo che si allontana e quel biglietto strappato dalle lacrime dei miei occhi e dalla pioggia che mi bagnava il capo. Una vita nuova, solo, come al solito, in compagnia di Solitudine, e di una pistola…


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010