Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
12ª edizione - (2009)

Un vorticoso torrente di stelle da "Ho servito il re d'Inghilterra" di Bohumil Hrabal

Entra un ragazzo di cui non so il nome, ma siccome siamo a teatro, lo identificherò con A.
Indossa giacca e cravatta nere e una camicia blu notte. Si accosta al leggìo, si schiarisce la voce e inizia a recitare istrionicamente.

A: Stabile anonimo, quinto piano;
la finestra, lorda e impolverata,
un'anta guasta, aperta a metà,
ferisce di un'unghia d'Urano
la vista alacremente allenata
di chi attrasse la curiosità
del poeta di questi vaghi versi.

Smette di leggere e guarda la platea in modo falsamente significativo. Dopo qualche secondo, si schiarisce la voce e attacca di nuovo, quasi in falsetto.

A: La volta celeste, dai color persi...

In fondo al palco, sulla destra, si vede spuntare un altro ragazzo, che indicherò con B. Dalla sua posizione, inizia a rivolgersi – a voce piuttosto alta – ad A.

B: Declama la parola cantilenando l'accento dell'altro. Persi. I color persi. Ma è geniale! Di' un po', come t'è venuta in mente una trovata del genere?

A: Non riconoscendo la direzione in cui si trova B, si volta dalla parte opposta e parla alla scenografia; dal tono di voce traspare la sua sbigottita sorpresa e il suo disagio. A dire il vero, la poesia non è mia, è di tale...

B: Sì, certo, immaginavo. In ogni caso questa è vera poesia, mi piace. La disposizione delle parole, dolce e musicale, la perfezione metrica degli endecasillabi, il registro aulico e le metafore ardite, anche la suspense che sa creare, visto che non rivela l'oggetto che cattura la sua attenzione... Sì, credo proprio che questa sia poesia al livello di quella che si studia a scuola.

A: Con un'espressione facciale nervosa, sorride uno di quei sorrisi segreti, che affiorano – chissà perché – molto prima che la mente inizi a concepire coscientemente ciò che li ha causati. In quel caso, era stata l'indeterminata sensazione di essere in pericolo. Sorride ancora, istericamente, e volta le spalle alla platea, cingendosi il petto con le mani in posizione difensiva. Elogio molto ben costruito, lasciami dire! Devo dunque supporre che tu già conosca questo grande poeta, il famoso...

B: Lo conosco molto bene. Si avvicina a passi lenti al leggìo e ad A. Visto che è di me che si tratta.

A: A sua volta si avvicina a B. Quando i due sono a circa 20 centimetri di distanza, lo fissa, e inizia a parlare. Questa volta è calmo e rilassato. Avrei dovuto sospettarlo. Siamo identici.

B: Ti sbagli, e – ciò che è peggio per te – sto per dimostrartelo. Con un unico movimento fluido, si tira su la manica destra sia della giacca sia della camicia. Urlando per catalizzare la rabbia e la forza, assesta un pugno sulla mascella dell'altro, che immediatamente cade svenuto, sanguinando.

B si ricompone, si siede a terra e inizia a parlare: State ben attenti a quello che ora vi dico. Vi racconterò la storia di come l'incredibile è diventato realtà. Secondo voi mi contraddico? Eppure, pensateci bene: l'incredibile può diventare realtà. Questo implica necessariamente che la gente non ci creda, ma non che ciò non accada. Il giorno di Santo Stefano legai il cavallino a un palo ricavato da uno degli abeti musicali risonanti che mi ero portato dietro, e fu proprio quel ritmo così soave proveniente dal legno, da cui avrebbero ricavato uno strumento musicale se non l'avessi salvato, a rassicurare l'animale che mi sarei allontanato per poco tempo. La capra annusò l'aria invernale, sapida e frizzantina, e si acquattò vicino al cavallo; il gattino emise un miagolio di rimprovero, ma non riuscì a sostenere il mio sguardo, e scappò via impaurito. A piedi, mi recai in paese: la mia figura, stagliata nella semioscurità dell'alba, sembrava aggraziata e perfino alta – nonostante non dovessi tenere il mento all'insù a causa del colletto di caucciù che mi segava il mento, come all'hotel Praga quando avevo tredici anni.
Osservai la desolazione della strada di cui mi sarei dovuto occupare; ormai, nei punti dov'era meno compromessa, si confondeva con tutti gli altri sentieri, percorsi accidentati, incisi dal passaggio di un gregge di pecore o di una biscia solitaria.
Poche ore dopo, nella casa del proprietario dell'emporio, stavo giocando a spezzettare il gulasch con le posate; macchinalmente, ogni tanto ne infilavo qualche pezzo in bocca con aria distratta.
I miei commensali erano allegri e ridacchiavano a gruppetti di due o tre, chi commentava il regalo orrendo ricevuto dalla cognata, chi spettegolava, chi si raccontava barzellette oscene.
Venni bruscamente sottratto alle mie riflessioni dalla vista di una bellissima ragazzina, una giovane la cui precisa età era indefinibile. Era ineffabilmente volgare, sia per come vestiva, sia per il modo in cui mangiava; i lunghi capelli biondi erano accrocchiati alla bell'e meglio, in parte ricoperti da una chiazza unticcia, residuo di chissà quale sudicio lavoro.
Intuii che fosse la pubblica concubina, il modo in cui qui chiamano eufemisticamente le prostitute.
Mi chiesi come le era venuto in mente di presentarsi al pranzo di Santo Stefano, il pranzo ufficiale di paese con il sindaco e la sindachessa, e il sensale e il notaio. Lo sguardo pregnante e fiero che mi lanciò, accortasi che la stavo fissando, fu una risposta soddisfacente.
Sebbene fossimo molto distanti nella tavolata, mi rivolsi a lei a bassa voce, e giuro che mi sentiva.
Le dissi che mi ricordava maledettamente Marcela, della fabbrica di cioccolato Maršner Orion: anche lei bellissima; anche lei, quando l'avevo conosciuta, era in quello stato ferino e bestiale, ma – grazie a un professore di letteratura francese – aveva scoperto l'amore uranio, allontanandosi definitivamente dall'amore pandemio.
Un uomo alto seduto tre posti alla mia destra che indossava una camicia a scacchi mi guardò sorpreso e si intromise nel discorso. Mi chiese come facevo a conoscere il Simposio, io così trasandato, così meschino e ignorante, ché si capiva da come disponevo le parole che non ero andato più in là della scuola primaria, la filosofia greca e la dottrina dell'Eros e Platone, erano roba da università, e lui lo sapeva perché la insegnava, ma mi dica mi dica, ripeteva, sono curioso di scoprire come fa a saperle, queste cose...
Scoppiai in un riso ritmicamente cadenzato, elegante, che lasciava intravedere i miei denti, ingialliti come le foglie d'autunno. Risposi che io, caro il mio signore, avevo servito l'imperatore d'Abissinia e, per di più, il mio mentore, il maître Skřivánek, aveva servito il re d'Inghilterra.
La pseudo-Marcela rise divertita. Il professore di filosofia mi concesse la battuta brillante, va bene, bravo, però adesso voleva saperlo seriamente, perché c'era stato uno che mi aveva insegnato quelle cose, no?
Ma si calmi, professore, si calmi, soggiunsi io: d'altronde, tutto ciò ha importanza? Ha senso ricercare il come e il perché senza fermarsi al risultato?
Il professore si indispettì e tirò su forte col naso. Certo che aveva senso, sbottò: era logico.
Ma professore, suvvia: non le è mai capitato che la tracotante e intellettualistica sensazione di poter ordinare sé stesso e il mondo con il solo aiuto del raziocinio la abbandonasse? Le spiegazioni giuste e pienamente logiche sono quelle che ci fanno ridere, caro professore. Non capisce che è lo scopo dell'ironia, quello di colmare in modo divertente le lacune enormi e gravissime che non potremo mai riempire, né io né lei né nessun altro?
Il professore era pronto a ribattere, e aveva pensato già a una citazione, da Aristotele, o Locke, o Cartesio... Ma, ciò che succede in genere ai filosofi, un evento glielo impedì.
Il tenutario dell'emporio si alzò e fece un discorso, e annunciò che sua moglie era di nuovo incinta, ed ecco i brindisi, ed ecco che arrivarono i dolci, ed ecco che la sala rustica ma raffinata, decorata di carnosi garofani e peonie e asparagina, si animò di chiacchiere, che si sfioravano tintinnanti come calici di cristallo.
La futura mamma si stava facendo rimirare dalle altre donne, docile come uno di quei cagnolini dei concorsi di bellezza. Le sue forme proporzionate e deliziose erano riflesse da uno specchio.
Trasalii mentre vedevo una cosa che sapevo di essere l'unico ad aver visto. Dallo specchio affiorò un'ombra, emaciata ed ectoplasmatica ma nettissima ai miei occhi: era l'ombra dei soldati tedeschi che, in un remoto giorno, avevano preso possesso di quella casa sconosciuta, uccidendo i mariti e i fratelli e violentando le donne; mi ghignavano contro, sghignazzando come iene, chiamandomi Herr Ditie in tono canzonatorio, come se sapessero ciò che il mio cognome voleva dire in ceco, il bambino, il piccolino...
Ma no, forse mi stavano beffando perché sapevano che non ero ariano, sapevano che ero un membro del Sokol, un ceco bolscevico venduto e corrotto che aveva sposato una figlia di Germania; incominciarono a risuonarmi in testa i chiodi che il mio figlioletto menomato piantava lungo i pavimenti senza soluzione di continuità, e mi spaccavano in due il cranio e la testa, e subito pensai alla testa di mia moglie Líza, e a quando la stavamo seppellendo e la testa non la trovammo più...
Un paio d'ore dopo mi ero perfettamente ripreso e stavo amabilmente conversando con gli altri commensali del più e del meno.
Il professore di filosofia si alzò e mi dedicò un brindisi. Brindammo. Poi mi chiese di raccontare a tutti la mia storia, io che ero venuto lì per custodire una strada su cui nessuno passava o sarebbe passato, che sembravo così ignorante eppure addirittura ero un seguace del (e qui tirò fuori un parolone che finiva con ismo, credo fosse il nome di una corrente filosofica), insomma, avanti, curioso personaggio!
Sospirai e raccontai loro degli episodi della mia vita privi di ogni concatenazione logica, ma evidentemente allegorici.
Avevo lavorato da cameriere in cento alberghi, con cento capi diversi, e avuto molte donne, alcune non ebbi neanche bisogno di pagarle, ed ero fuggito dalla mia terra per andare in Germania, ma non per opportunismo, per amore!, e poi ho avuto un figlio ritardato e mia moglie è morta, e sono diventato milionario ma nessuno voleva riconoscermelo, nemmeno i gestori della prigione per milionari – ah, quanto ci siamo divertiti in quel posto: altro che prigione, sembrava un centro benessere! – allora mi ci sono fatto rinchiudere per un po', e poi sono andato a raccogliere gli abeti musicali risonanti, che una volta diventati violini o chitarre avrebbero allietato la gente coi loro suoni, e poi in questo posto sperduto, a sostituire gli zingari, a occuparmi di una strada che nessuno avrebbe mai frequentato a meno che non ce lo avessi condotto io, che ogni volta che la percorrevo mi faceva venire in mente la mia vita; tutte queste cose dissi loro non in questa prosa efficace e dogmaticamente ordinata che state ascoltando, ma in modo scarno, anapodittico, sentenzioso e oscuro.
Eppure giuro che mi capivano tutti, tranne il professore di filosofia.
Il proprietario dell'emporio, quando gli parve che avessi finito di parlare, cachinnando chiese quale fosse, dunque, la fine di questa gradevole storiella, ché mica voleva restare a fissarmi come un baccalà fino a San Giovanni. Fui felice che non avesse creduto al mio racconto, perché, come vi dicevo, l'incredibile può diventare realtà – a patto che non ci si creda.
La pseudo-Marcela, che ancora non se n'era andata nonostante le donne avessero ormai cominciato a farle intuire quanto la sua presenza fosse fuori luogo, mi fissava attentamente, e io seppi dal suo sguardo che il primo gennaio avrei riscosso la mia paga e me ne sarei andato, in cerca di qualcos'altro, di quell'indeterminato qualcos'altro che in fondo ci muove tutti.
Continuai il mio racconto, essendo ben conscio che quella parte finale l'avrebbe capita solo lei.
"Insomma: ho servito Hailè Selassiè, l'imperatore d'Abissinia. Ma, ciò che importa veramente, sono giunto a sentirmi diverso da tutti quelli che guardano il cielo di notte, cercando la luce. Mi sono sentito uno dei pochi per cui le stelle di Praga si avvicinano e si raggiungono e confluiscono con uno sciabordio adamantino in un vorticoso torrente, che scorre nella volta celeste - cercando, senza essere visto, di illuminare l'incredibile che diventa realtà", dissi.
Sei giorni dopo riscossi la mia paga e – visto che ogni cosa per me era indifferente, dunque importante – preparai la partenza badando bene di non scordarmi nulla. Montai sul cavallino, lasciai la capra alla pseudo-Marcela e abbandonai il gatto, che per un attimo affondò i suoi occhi compositi nell'enorme vacuo dei miei. E andai via, verso Praga.
Vi basta? Con questo ho finito.
Esce trascinandosi dietro il corpo di A


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010