Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
12ª edizione - (2009)

...Di ruggine, di botte o di età dalla lettura di Fuori e Dentro il Borgo di Luciano Ligabue

A parte il fatto che non sapevo neppure che cavolo ci facessi lì, trascinato per braccia e anima da Michela a quel raduno di fan all'ultima meta, alla fine avevo ceduto, mi ero lasciato scivolare dentro tutte quelle facce da vita fatta, quei volti scavati dalle frasi da interferenza sull'esistenza, e, d'altra parte, cercando dannatamente di ottenere una buona impressione su quegli occhi di foglia matura, che mi avevano convinto a lasciarmi condurre in quel buco che odorava lontano un milione di miglia di fumo e jazz mescolato al peggior J&B di Tom Waits, mi ero documentato e preparato al punto di cottura ottimale.
Avevo cercato di affilare la mia lingua spagnola come si doveva a tali circostanze, anche perché non si sapeva mai: prima o poi coi Leggero, un tour per tutta Europa, magari con quella Uno verde da periferia petrolchimica che continuava a fermarsi in coda, la sera del nostro primo ingaggio, perché ci piaceva ancora chiamarli così, l'avremmo anche fatto. Mi ero ripromesso di uscire dal giro di cover, doverose e notturne, di Neil Young, anche perché avevo imparato a straziare My My, Hey Hey, con quella mia voce scoordinata, che mi veniva da simularci su un tango su una gamba sola, e su quella cassapanca con cinque corde e mezzo ridipinta di nera, per assomigliare giusto con quel tocco di esotico che mai non guasta a Johnny Cash, ascoltandola in continuazione da una vecchia cassetta pirata affittata di nascosto dalla collezione di mio padre, un bootleg di quelli particolarmente ispirati, quasi avessero rapito il vecchio Neil e l'avessero appiccicato a quel nastro nero che da piccolo non capivo neppure come ci potesse finire la voce di qualcuno su, con tutti quegli strumenti che si sovrapponevano, e la voce che sbucava da sotto, come da un tappeto tutto malandato, sporco e puzzolente, ma con tanto di quello spirito tra i fili intrecciati da poterci ballare su in eterno, quasi tutti i passi continuassero a risvegliarlo, quasi fosse un vecchio boxeur che continua a incassare e sentirsi vivo con quei montanti nello stomaco. E già, per fare una buona impressione avevo persino rinunciato a fare lo scemo come quel pazzo di Rourke, avevo stracciato il poster di Rusty Il Selvaggio e avevo smesso di tirare di boxe, tanto il naso dritto, come l'albero maestro su quella nave che Byron fa affondare tra i marinai ubriachi, sulla faccia mi era ancora rimasto.
E, al solito, non mi sentivo mai appagato, continuavo a cercare di ottenere un posto in prima fila tra i capelli della mia bella, che mi aveva lanciato in una folle corsa da zero a dieci – e vedevo non senza una immodesta soddisfazione, che le ripetizioni dagli accaniti del rocker romagnolo già funzionavano – e mi ero dato a esaustive sedute di letture comune di poesie del Nostro, avevo riesumato i vecchi cd che avevo di quando ero più piccolino, sempre schivando le crisi di mezz'età a diciotto anni suonati e le citazioni da Oscar Wilde, mi ero fatto le pere con Muddy Waters e il buon John Lee, come quando prima di salire sul ring mettevo su Générique, e il suo fischio tagliente mi affettava i pensieri mentre prendevo tanti di quei cazzotti sul muso che Leporello ci avrebbe messo troppo persino lui a tenermi il conto. Ah, senza contare che Radiofreccia mi era piaciuto sul serio, davvero. Tanto che non la smettevo più di fare atmosfera con le ragazzine, continuando a urlare dietro a quelle che passavano di qui che per loro avevo perso tutto, anche le parole che mi perseguitavano, anche quando in classe mi avevano dato del Cicerone, cosa che non avevo mai disciolto nel gastrico abbastanza – stavo sempre con Catilina, sempre.
"Allora come ti sembra il posto?"
"Non lo so, lo sai che 'ste cose non mi piacciono troppo."
"Sei sempre noioso, o è solo oggi che ti sei svegliato in vena di fuochi d'artificio?"
"Eddai, lo sai che non è il mio genere."
L'avevo già accompagnata una volta, persino a un concerto, che alla fine mi era anche piaciuto parecchio, ma non avevo mai avuto il coraggio di confessarglielo. Guidava lei, su quella strada color diesel battuto, e il luogo in cui arrivammo sembrava uscito di traverso da un incubo alla Hillman. E questa volta non credo immodestamente di esagerare.
Sembrava uno di quei quadretti familiari alla Teocrito, nome che conoscevo perché una volta da un'antologia di Shelley che mandavo giù, boccone dopo boccone, per cercare di dare un tono alla mia faccia timida, avevo letto una citazione che mi aveva dato da pensare tra le note a margine, solo che pareva anche una di quelle foto di classe che tenevo nascoste nei cassetti da anni, un po' perché mi vergognavo di esser venuto su bello tondetto e con un caschetto impresentabile, un po' perché mi sembrava di guardare le impressioni di gente morta galassie fa.
Eccoli qui, tutti i morti della mia vita chiamati a raccolta. La mia esistenza che mi strisciava vicino i piedi, tutta quanta, e io che mi ci avvicinavo centimetro dopo centimetro, mentre credevo di svenire.
C'era Ciccio, lo chiamavo così, solo io, perché in quarta elementare rubavo in edicola i fumetti di Snoopy, con Charlie Brown che tutti chiamavano Charlie Brown, per intero, per esteso, ma solo la Patty riusciva a chiamarlo così, Ciccio, e non Charlie Brown, per intero, per esteso; così, per sentirmi più vicino, unico col mio amico, anche se montava su e mi faceva scenate di un quarto d'ora filato, lo chiamavo sempre Ciccio. Avevamo fatto gli anni di galera obbligatori per tutti, scuole elementari e medie, perché il liceo era stato il mio alterno Purgatorio, anche se ritrovarsi a citare adesso il Dante che non ho mai digerito per bene mi dà da pensare, e tanto; insieme, giocavamo sempre nel parco di fronte alla chiesa dietro casa di sua nonna, e negli ultimi tre anni ne avevo solo sentito parlare perché anche lui era stato al concerto che avevo visto anch'io, oddio, in cui avevo visto da vicino Michela, mentre lei ascoltava tutta impegnata, con quella riga sulla fronte che sembrava catturare sentimenti che i miei al confronto erano bolle di sapone, di quelle pure scadenti. Aveva ancora addosso la maglietta con tutti gli strappi che avevo fatto io, perché eravamo cresciuti in un istante tutti e due, quando abbiamo capito che ci piaceva la stessa compagna di classe delle elementari, e ci eravamo picchiati in giardino perché lui le aveva colto tanti, troppi bei fiori, e io avevo paura, forse per la prima volta in vita mia, che si innamorasse prima di lui. L'unica volta in cui abbiamo mai litigato sul serio, anche prima di perderci del tutto.
Uno sguardo a destra, e gli occhi acuminati di Wolverine.
Lo chiamavamo tutti così, i primi due anni di liceo, perché aveva quei basettoni da commissario italiano pre anni di piombo, e perché in effetti parlava molto poco, riusciva a rimanere al caldo, sotto quel cielo freddo che c'era tutte le mattine, estati milanesi comprese, sopra l'edifico annacquato che insegnanti e preside non avevano il coraggio di chiamare casa, solo senza scoprirsi mai, ma un giorno abbiamo scoperto che scriveva, anche maledettamente bene, con un rasoio sulle pagine sfogandosi contro la professoressa di fisica, che lei sì davvero aveva l'accento romagnolo, sembrava David Bowie quando faceva l'hippy a San Francisco con i capelli lunghi, ma con la voce di Guccini, contro quella di storia, che dal primo anno ce l'ha sempre avuta con lui perché evitava i commenti stupidi, e contro quella di francese, che si divertiva a tormentarlo perché si vestiva bene: un giorno aveva un gilet verde stupendo, residuato anche quello dei primi '70, evidentemente, che la prof., come si chiamavano allora, col punto alla fine di prof per delimitare la categoria professionale di pertinenza, prende e gli strappa di dosso, e lui niente, neanche un respiro. Un giorno gli apriamo la cartella, e passiamo le giornate intere a ridere con quello che ha scritto, su tapiri e supplenti, mentre tra i suoi cd avevamo scovato, e messo dignitosamente su, credo il primo album dell'Eroe lucreziano su citato. Credo che l'anno dopo l'abbiano bocciato, qualche fetente deve aver fatto la spia con quello di ginnastica. Che però su me non ha mai detto nulla, finché mi scroccava le sigarette e io non andavo a lezione.
Altro scatto, questa volta a sinistra, e tra la SG bianca sdrucita rubata da qualche concerto in qualche palazzina che sapeva di vomito più di quel posto, e il poster con la faccia da diavolo e l'aureola bionda alla brillantina del Killer Jerry Lee, e mi fanno ciao con l'aria del ventilatore acceso a marzo i capelli neri di Fabiola.
Era la prima ragazza di cui mi sia davvero innamorato, e lo sapevo perché tante cotte ne avevo avute, come con quella Sabrina per cui stavo rinunciando al mio amico, e alla mia infanzia, ma il cuore non aveva mai rischiato di collassare davanti al suo sguardo in quel modo. Eravamo diventati amici, questo sì, ma ero maturato finalmente continuando a sputarmi addosso del codardo, per non avere mai trovato il coraggio di dirle tutto quello che avevo provato per lei. Era stata da me, un'estate intera, insieme avevamo scritto la mia prima canzone, su quella Telecaster che avevo sfondato la prima volta che ci avevo cambiato su le corde, ma mai nulla. Ed ero cresciuto con la convinzione di essere non un perdente, ma neanche il vincente su cui tutti ripongono le speranze, quel Terry Malloy che infine, dopo la dovuta redenzione, vince sempre sul male, il battitore che con gli uomini su tre basi fa vincere la partita, magari col figlioletto che l'ha sempre odiato che gli corre fra le braccia dopo la vittoria, quando ha afferrato che il padre soffre da cani per lui. Pareggiavo con la mia vita, ogni volta, ci combattevo, continuavo a sbattermi su e giù, nel mio mondo discretamente libero, incassavo e ribattevo, ma la sensazione di avercela messa tutta e di aver perso con dignità, o quella di avere ancora tanto sangue in bocca, ma di essere riuscito a buttare giù Apollo, e di poter tornare in strada ad abbracciare la mia Adrian, quella non ce l'avevo mai avuta.
E tutte quelle sensazioni dannate e maledette, erano tutte lì, sulla riva di un abbraccio.
Lo so cosa vuol sentire, la gente, di questi tempi.
Che mi sono riconciliato con Ciccio, che a Wolverine gli ho confessato che ci aveva dato la speranza di riuscire un giorno a ricacciare quei Dracula nei loro fossi, che puzzavano più delle mura color pioggia sporca, di quella che insozza ancor di più i marciapiedi di Allen, della loro scuola.
Che a Fabiola ho detto quello che mi aveva fatto passare. Che finalmente mi aveva fatto crescere, quando ascoltavamo insieme, anche senza coraggio, anche senza qualità particolari che ci distinguessero, quando eravamo lì seduti sullo stesso divano, o separati solo dal muro delle camere confinanti, quelle vecchie canzoni piene di sfoghi e passioni di un uomo che da Correggio, magari con aspiranti mocciosi che si rincorrevano per rincorrerlo ai suoi concerti, magari con quella patina di pop che gli sporcava quel paio di scarpe che solo Thorogood si sarebbe potuto permettere con credibilità, quella patina che accecava lo sguardo dei puristi che avevo imparato a sopportare a fatica, ci aveva portato, magari anche con le sue frasi da vita completamente andata, ogni tanto a pensare anche a noi stessi, senza doverci leggere per forza su una carta d'identità.
E sì, lo so, vorreste anche leggere che alla fine Michela sono riuscito a baciarla.
Io però di fantasia ne ho ancora poca, a diciotto anni suonati. Le storie non le so più raccontare, da quando mi sembra che Dylan le abbia raccontate tutte narrando al mondo di come abbia perso sua moglie per amore. Però ogni tanto la mia Telecaster la prendo ancora in mano, ogni tanto il puzzo di blues di quel posto mi torna alla mente, ogni tanto mi fermo e mi siedo sul balcone. Una sigaretta me la accendo ancora, ogni tanto cambio le corde, ora che ho imparato decentemente, e quel vecchio di Neil Young continuo a suonarlo.
E non è mai lo stesso giro, non faccio mai lo stesso bending due volte.
Anche perché ogni volta non ricordo mai tutti i dettagli di quel giorno allo stesso modo.
Ma anche dal mio balcone le stelle continuo a guardarle.
E anche i fili tra loro non sono sempre gli stessi.
Saranno questi occhi, che saranno cambiati.
Ma tanto, le stelle le guardo anche da qui.
Seduto in riva alla mia vita.

Questa volta sì, con Michela accanto.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010