Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
12ª edizione - (2009)

Lo strano caso del deserto ambulante

Piero non poteva credere a quello che i suoi occhi vedevano: il vecchio Narciso era davanti a lui ridotto a uno schifoso straccio lurido, da capo a piedi. Il puzzo di sporco e urina gli penetrò le narici fino a raggiungere l'anticamera del cervello. La barba e i capelli del vecchio non erano bianchi e lindi, ma giallastri, color vomito, e increspati come il pelo dei randagi. La giubba leggera in pieno dicembre come la faccia di un minatore e le mani, le mani da pianista tanto curate una volta, ora erano piene di lividi; le unghie nere e le vene espulse fuori dalla pelle come uno sputo di bluastro catarro, catarro che peraltro gli usciva con la bava da un angolo della bocca, irrimediabilmente storta e sfigurata in un ghigno da pagliaccio inconsapevole. Narciso tirava su col naso e il movimento svelava i denti, una volta perfetti, cariati e color caffellatte. Ora, c'è da dire che la cosa più spaventosa erano senz'altro gli occhi, certo solo per Piero, che lo conosceva prima che diventasse solo una spiccia visione misera. Erano vuoti, senza espressione alcuna, la cornea piena di venature rosse a raggiungere l'iride, ora più oscura di come la ricordasse Piero.
Il vecchio era malato di demenza senile, di cupa modestia, d'assenza affannosa; da due settimane era scomparso e il quartiere era stato sommerso di sue immagini con la richiesta, a chi lo avesse visto, di chiamare il numero 0237457645 previa ricompensa. La malattia aveva rubato un uomo agli occhi di un altro, ora quest'altro sapeva che non era così. Non era stato depredato un bel niente, ma tutto era il risultato di una complessa equazione. Narciso Toldizi aveva fatto quello che faceva ogni giorno prima della pensione: andare a lavorare nel suo ufficio di corso Buenos Aires, quando in un tempo lontano impartiva ordini a destra e a manca con la sua voce melodiosa ma autoritaria, che non ammetteva repliche, accompagnata dall'indice dispotico imitato dai discorsi di dittatori carismatici e moderni Re Sole. A quell'epoca faceva parte del Parnaso di industriali e birboni pieni zeppi di pidocchieria e forniti di galateo di prim'ordine, esseri seduttori non solo di donne civettuole e semplici, di dame dei quartieri alti, di puttane dalla voce sorda per focosi capitalisti; essi erano seduttori innanzitutto di altri uomini disposti a investire, era la specialità congenita, acquisita dopo secoli di fruttuose attività familiari; c'è da dire che a volte nella famiglia capitavano le pecore nere, figlie d'un porco Giuda, che rovinano tutto in un secondo, e c'era da ricominciare da capo. Il ricominciare marcava nei geni lo sbaglio e la risposta data a esso dall'imprescindibile vittorioso, che dal buco nero riusciva ad acchiappare un lembo di soldo pulito con forza e volontà ricevute in dono da chissà dove, da chissà chi, dalla motivazione dell'orgoglio familiare forse.
La fortuna della famiglia di Narciso era dunque questa e soltanto, come quella di altri come lui: quella di aver tramandato il seme dalla rimembranza vincitrice, non quello arido e triste della perdita; la fortuna di avere donne di quelle che sanno ricavare un vero uomo da un ammasso di carne viziosa, quando a volte questa disgrazia capitava, e dire che questi signori non erano le pecore nere.
Il vecchio era stato il miglior seduttore d'affari che la famiglia potesse vantare da almeno cent'anni di produzione illimitata di vincitori, quello che si era spremuto le meningi e le articolazioni sotto il peso di gravosi problemi, subite scelte e, dato che era passata di moda la pazzia quand'egli era giovane, si era dovuto attenere a certi limiti di rispettabile tranquillità. Eppure non era ciò che voleva. Voleva mollare tutto, andare a confezionarsi un abito da bohémien a Parigi, scrivere un romanzo erotico che facesse gridare allo scandalo i preti, ma al contempo regalasse novità a noiosi amanti e il riso a vecchi letterati con la pipa rintracciabili nei pressi della Tour Eiffel. Voleva dipingere quadri impressionisti circondato da muse ispiratrici dall'eterea bellezza, immergersi nell'aria pesante dei locali frequentati da giovani surrealisti, seguaci di Dioniso. Voleva scrivere una sceneggiatura teatrale che rappresentasse il grido di quei rivoluzionari senza bandiera, di quegli eterni giovani. Ma lui era parte di quel mondo caparbio nella sua discesa all'inferno? No, di certo. Quelli erano solo miraggi di una felicità idealista che un capitalista non poteva permettersi. Un sacrilegio molto vicino all'atto di pulire le scarpe a un rozzo operaio comunista, di quelli che parlano alle riunioni sindacaliste, gridando, chiedendo, implorando, con il collo simile a un palloncino rosso sotto pressione. Se mai avesse raccontato le mete della sua immaginazione ai suoi simili, i piccoli attimi in cui veniva a contatto con l'inconscio volontariamente, era sicuro che l'avrebbero preso per un acefalo. Un ebete che ben simulava la normalità unicamente per restare a galla in una marea di puntigliose rocce.
Piero si era ritrovato suo nonno davanti, la sua icona fatta mille pezzi da una belva invisibile con i denti aguzzi e affilati. Lo prese dal braccio e lo tirò dentro l'ufficio. Era sempre il primo ad arrivare alle sei del mattino: giorno per giorno, come il nonno, che aveva fatto lo stesso anche oggi, guidato dalle responsabilità passate. Le ossa ora le poteva toccare per bene. Era rachitico. Lo guardò direttamente negli occhi e poi abbassò il suo sguardo sulla bocca; vide allora che le labbra del nonno tentavano di comporre una parola, una frase.
"Il destino non esiste." Sentì dire da una voce flebile e impastata.
"Lasciati andare qualche volta e segui la tua fantasia."
Lo fece sedere sulla poltrona di pelle e digitò subito il numero del medico di famiglia sul cellulare.
Quel che accadde di seguito lo possiamo ben immaginare: il vecchio fu portato all'ospedale, dopodiché fu internato in una casa di riposo e il nipote tornò a lavorare come di routine, finendo i suoi giorni con una vita a forma di cerchio, di orologio, di piatto, tutte cose che si possono facilmente rompere con un calcio, cancellare con una gomma, tutte cose lisce e noiose. Ebbene, questo cerchio fu cancellato, dalle poche parole uscite da una bocca malandata, da una mente in deperimento, ma grazie alle quali si aprirono le porte di una prigione invisibile, intoccabile.
Piero, fece a Dio tutti i ringraziamenti per il fatto di esser lui divino e di avergli dato la libertà di essere semplicemente un uomo, un'altra via tra la sola che i paraocchi gli avevano imposto dalla nascita. E il vecchio? Beh il vecchio per il momento non era in una di quelle temute strutture pre mortem, ma era con lui, a godersi ancora la vita, anche se inconsapevolmente. Piero non doveva sacrificarsi a niente e nessuno. Si dice che le parole volino e si perdano, e ciò è innegabile, ma c'è da dire anche che ci sono menti capaci di afferrarle e marcarle in modo indelebile sulle loro vite prima che scompaiano. Così Piero non è più rinchiuso oggi in un secco ufficio a Milano a dare ordini, è più mancino che destro, più nobile che vile. Vive a Parigi e anche se non è un bohémien è un comune e semplice giovane dei nostri giorni, con le solite preoccupazioni e momenti felici, ma senza lo schifoso peso di un destino irrevocabile. Voi direte che questo è impossibile, che un uomo non può mollare, soprattutto un uomo dalle grandi responsabilità, e che ciò sarebbe senz'altro amorale. Ma, il ma che non può sparire da qualunque discorso quasi decente, il ma che rompe sempre; se siete guidati dai presenti fatti nel vostro giudizio, crisi economica, società edonistica votata all'egocentrismo e vanità primordiali, al sentimentalismo apolide, sappiate che il posto di quel giovane nella vita verrà preso da qualcun altro, che magari farà lo stesso e anche meglio, che niente di materiale sarà perduto, se ciò vi fa contenti. Era solo una questione di ciclo: nulla può sopravvivere all'eternità, vuoi che sia la scelta di un uomo del Settecento per la sua famiglia vuoi che sia una rivoluzione che sta su grazie a versi ben cantati, vuoi che sia una religione redentrice di peccatori. Chi sogna l'eternità non è altri che un apostolo di Don Chisciotte, un carceriere senza chiavi che perde la sua vita e l'altrui sudando sotto ardenti arcobaleni, come un deserto ambulante nella tratta di uomini imprescindibili.

E ora basta con i discorsi noiosi, andiamo a goderci quel che ci resta della vita, andiamo a spendere il tempo in quelle cose che ci rendono fertili e liberi una buona volta.

 


»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni

Copyright © 1999 - Comitato per Sofia - Tutti i diritti riservati.
Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010