Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
2ª edizione - (1999)

Io e Alice

Non è vero che i libri finiscono quando si volta l'ultima pagina; anzi, per quelli più "belli" non è quasi mai così: possiamo riaprirli, e rileggerli, da capo, infinite volte, fingendo di non sapere nulla di quel che hanno da dirci, per gustare di nuovo il sapore inconfondibile ed inesauribile della loro storia.
Ci sono libri, poi, di quelli davvero rari, che ti capitano una o due volte al massimo nella vita, che non smettiamo mai, veramente, di leggere: forse siamo noi ad essere penetrati un po' nel loro mondo rilegato (in uno di quei punti in cui la storia si fa particolarmente avvincente e la carta delle pagine estremamente sottile); o forse sono loro che si sono intrufolati di soppiatto nella nostra vita, mentre noi, ignari, li leggevamo.
Comunque sia, ecco che poi ce li portiamo invisibilmente dietro, in ogni momento, come voci inafferrabili e trasparenti, come il ricordo di vecchi amici assenti: ci accompagnano per le strade e sul tram, li sogniamo nei nostri sogni, li pensiamo nei nostri pensieri, parliamo le loro parole, e ascoltiamo la loro storia come fosse la nostra.
Sono, questi, libri "magici", a cui chiediamo di riempire la nostra vita con il loro mondo e nei quali a nostra volta gelosamente riponiamo un po' di quello che siamo e di quello che eravamo quando li abbiamo letti.
Fino ad oggi, quell'insaziabile fame di storie, di inchiostro e parole, che mi porto dentro fin da bambina, mi ha fatto leggere tanti, tantissimi libri: alcuni belli, altri no. Alcuni che ho divorato tutto d'un fiato, altri che ho piantato lì, senza troppi rimorsi, a pagina due.
Il "mio" libro magico, però, quello da cui mai e poi mai sopporterei di separarmi, è stato uno e uno soltanto, proprio come i grandi amori: "Alice nel Paese delle Meraviglie".
Un libro per bambini, che ho letto da bambina. Un libro per grandi, che continuo a leggere "da grande".
Non so quando e dove incontrai per la prima volta Alice: presumibilmente, dovevamo avere all'incirca la stessa età, (lei sette anni e mezzo, per essere precisi) e deve essere accaduto vicino a qualche tana di conigli, perché la sua storia, le sue "Avventure nel Paese delle Meraviglie" cominciano tutte lì, con lei che si annoia di stare seduta a sentire la sorella e si mette ad inseguire il Coniglio Bianco.
Capitolo primo: "Nella tana del Coniglio": l'ingresso al Paese delle Meraviglie. Da allora, dalla prima volta che sono finita in quella tana insieme ad Alice, la sua storia non mi ha mai più abbandonata.
Quel libro, scoperto chissà come per caso, è stato la passione esclusiva della mia infanzia, l'inizio e la fine di tutti i miei sogni, ad occhi aperti e chiusi, l'avventura magica che speravo, prima o poi, capitasse anche a me: l'unico libro, insomma, che appagasse tutti i miei desideri più fantasiosi, l'unico che mi sembrava valesse la pena di leggere, rileggere e rileggere ancora, nell'illusione che non finisse mai o che mi raccontasse, una volta o l'altra, qualcosa di nuovo e di straordinario.
Perciò, non mi limitavo solamente a rileggere fino alla "consumazione", anzi fino alla "consunzione" quell'unica copia che era stata l'inizio del mio amore incondizionato, ma presto avevo cominciato a collezionare "Alice" in tutte le edizioni che mi riusciva di scovare, illustrate e non, economiche e lussuose, nella segreta speranza-sospetto (di cui ancora non mi sono liberata del tutto) che ogni diversa edizione mi avrebbe riservato un particolare inedito e sconosciuto.
E veramente mi sembrava di incontrare un'Alice ogni volta un po' diversa, "un po' cambiata", come diremmo di un amico che non vediamo da qualche tempo, osservandolo con particolare attenzione.
Avevo questa impressione soprattutto con i libri illustrati, e allora diveniva davvero una questione di fondamentale importanza, un punto d'onore, l'aspetto che il disegnatore aveva dato alla "mia" Alice, della quale, ovviamente, mi ero fatta un'idea ben precisa.
Nella prima edizione che lessi, Alice aveva un vestito azzurro con il grembiulino bianco che mi piaceva abbastanza, e i capelli biondo chiaro, leggermente ondulati.
Fu perciò con un certo disappunto che me la ritrovai vestita di fucsia, con una massa spropositata di boccoli giallo limone, in un libro regalatomi tempo dopo (ma del resto si trattava, ricordo, di un libro stranissimo, con le pagine che profumavano anch'esse di limone, e quindi doveva avere di Alice una sua idea un po' bizzarra...).
Al momento, l'Alice che preferisco è quella dei disegni originali di John Tenniel: una bambina in bianco nero ed in perfetto stile vittoriano (così è anche libera di scegliere di che colore vestirsi), totalmente diversa, per quanto ne so, dall'Alice vera, in carne ed ossa, la musa ispiratrice della storia, quella che per la prima volta sentì le avventure del Paese delle Meraviglie durante una gita in barca.
E anche questo fatto, che ci fosse stata un'Alice vera, mi riusciva particolarmente affascinante, e contribuiva ad accrescere la mia inesauribile curiosità intorno al suo mondo.
Le storie dei libri che leggiamo sono in gran parte "finzione": un termine freddo, impietoso, che sembra voler porre una distanza incolmabile tra noi e un universo fatto soltanto (soltanto?) di carta e parole; eppure quante volte vorremmo che i personaggi di quei libri potessero uscire dalla loro sottile esistenza di carta, ed essere finalmente veri e vivi, così come noi sentiamo che sono.
Finché si è piccoli, credo, risulta tutto più facile, perché i bambini sanno essere "poeti" in una maniera naturale e fiduciosa (di cui i grandi invece non si ricordano più) e credono con convinzione nei loro mondi immaginari, quelli che scoprono nei loro sogni, e quelli che regala loro la pagina scritta.
Così, l' "Alice vera" è sempre rimasta, per me, uno di quei misteri di cui è piacevole non sapere quasi nulla, e con la sua stessa, inafferrabile esistenza, riusciva a dare spessore e realtà a quel mondo "finto" che con tutte le mie forze desideravo vero.
Io volevo "essere" Alice, e vivere le sue avventure, e non mi stancavo di rastrellare, ostinatamente, in lungo e in largo il campo giochi sotto casa, alla ricerca della "mia" tana di coniglio.
È proprio nella "naturalezza" con cui avviene la scoperta dell'altro mondo, che sta, infatti, gran parte della magia, del fascino della storia di Carroll: l' "altro mondo" è lì, a portata di mano: in fondo ad una banalissima galleria sotterranea, o dietro lo specchio (che, se lo guardi bene, ha un interno) o, ancora, come scoprii più tardi, nell'ennesima rilettura, nelle pieghe nascoste delle parole, nelle impercettibili fratture che si aprono tra esse e la realtà che esprimono.
Le parole: sono loro le vere protagoniste dell'universo di Alice, creature vive, capaci di trasformare la realtà di tutti i giorni in qualcosa di nuovo e sorprendente, senza inventare nulla, ma prendendola semplicemente "alla lettera", facendola parlare con la sua stessa voce.
Se dunque era capitato ad Alice di scoprire il Paese delle Meraviglie, perché, mi dicevo, non poteva accadere anche a me?
Ed ecco che, allora, in margine al libro di Alice, cominciava, per così dire, un altro libro, scritto da me, dalla mia immaginazione, e fatto di tutti i sogni e di tutte le fantasticherie che la mia eroina era stata capace di ispirarmi.
I libri magici, d'altronde, non fanno altro che questo: noi li leggiamo, e le loro parole risvegliano in noi altre parole: parole da aggiungere, parole da cambiare, che vanno a scrivere, silenziosamente, un libro nuovo, tutto nostro e diverso, un libro invisibile e interno, che comincia proprio lì, ai confini del libro vero, formando quasi un tutt'uno con esso.
Nel "mio libro", la Casa dello Specchio doveva trovarsi dietro lo specchio grande del bagno, che pareva il più adatto allo scopo, e ogni volta che, leggendo, arrivavo al punto in cui Alice si arrampica sulla mensola e vede il vetro dello specchio sciogliersi e svanire in una nebbia d'argento, con il libro sottobraccio mi precipitavo anch'io a provare, a tastare ansiosamente la superficie trasparente in attesa del momento decisivo.
E poi c'era il ripostiglio della scarpe, che con il suo buio (c'era solo una lampadina minuscola appesa al soffitto), il suo spazio stretto ed il suo odore di chiuso, era per me ora la Tana del Coniglio, ora il bosco del Paese delle Meraviglie, dove le cose dimenticano il loro nome.
Io, invece, lì, dimenticavo completamente la realtà esterna: mi ritiravo a leggere Alice, con la porta chiusa (a rischio di rimanere soffocata!) per ore, scomodamente seduta sulle scatole di cartone, sognando che, se mi fossi arrampicata fino in cima allo scaffale, avrei forse scoperto che non c'era il soffitto, e che da lassù si sbucava nel mondo di Alice; oppure che, arrivando in fretta all'ultimo ripiano, avrei fatto in tempo a vedere il sorriso sornione dello Stregatto, che, al punto in cui ero nel libro, stava già scomparendo.
Leggere Alice mi faceva sentire coraggiosa, e mi affascinava l'idea di affrontare da sola un'avventura, in un mondo sconosciuto, lontana dai grandi e dai loro discorsi banali, privi di ogni attrattiva: ovviamente, poi, pensavo, sarei sempre tornata indietro, nella realtà di tutti i giorni.
Mi sarei svegliata anch'io proprio mentre la Regina di Cuori avrebbe minacciato di tagliarmi la testa, e avrei custodito come un preziosissimo segreto il ricordo di tutto quello che mi era capitato.
A quel tempo, insomma, l'esistenza del Paese delle Meraviglie, era una cosa che non avrei mai messo in dubbio, e con tutte le mie forze desideravo andarci, per davvero, anch'io.
Forse, pensavo a volte, anche a me serviva la chiave, la chiave che apriva la porticina dietro la tenda rossa (come si vede sul frontespizio della mia edizione preferita), e che Alice aveva dimenticato, ahimé, sul tavolino di cristallo.
Beh, se quello che mi mancava era la chiave, un giorno o l'altro, forse, l'avrei trovata (per caso, come sempre accade nel mondo di Alice) e non dubitavo che avrei saputo riconoscerla.
Oggi, tornando a casa sotto la pioggia, ho visto nella vetrina di un negozio di antiquariato delle chiavi antiche: alcune pesanti, in ferro battuto, altre tutte intrecciate, altre ricamate come fossero fiori: chissà, forse tra quelle c'era anche la "mia" chiave, la chiave di Alice.
È stato come tornare bambini. Perché non sono entrata? Perché, finché guardo da lontano quelle chiavi, posso continuare a sognare che una di esse sia proprio quella giusta, e poi perché, una volta trovata la chiave, potrei scoprire di non essere più della misura giusta per passare dalla porticina (dopotutto non ho più sette anni e mezzo), e allora sì che sarebbe una delusione.
Alice non è cresciuta, ma io sì: per lei il tempo si è fermato al pomeriggio della gita in barca e a quello in cui passava attraverso lo specchio.
E questo è un po' l'amaro che inevitabilmente ci lasciano tutti i libri più belli, anche quelli davvero magici, che non smettiamo mai di leggere e di vivere: il fatto che il loro Tempo è un eterno, immobile, tempo di carta, mentre il nostro fugge e corre (forse perché, come sostiene il Cappellaio, non ci manteniamo in buoni rapporti con lui, e così non ci riesce di fargli fare quello che vorremmo noi).
Mi piace pensare, però, di poterlo fermare, ogni tanto, questo Tempo, ed entrare nel Paese delle Meraviglie nella maniera più semplice che conosco: aprendo, cioè, quel libro che sempre mi guarda e mi sorride dal suo scaffale, e andare in quel magico mondo dove è sempre l'ora del tè, e dove tutto accadrà di nuovo esattamente come la prima volta, esattamente come nella mia infanzia e nei miei ricordi.


»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni

Copyright © 1999 - Comitato per Sofia - Tutti i diritti riservati.
Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010