Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
2ª edizione - (1999)

Un'esperienza di lettura

Un giorno come tanti, mi reco in biblioteca per leggere un libro di cui ho tanto sentito parlare: "Se questo è un uomo", di Primo Levi.
Lo trovo subito. È posto in bella vista su uno scaffale verde non molto lontano dall'entrata. Immediatamente lo prendo e comunico alla bibliotecaria la mia decisione, senza essere a conoscenza di quello che sarebbe accaduto dopo aver aperto la prima pagina.
Arrivata a casa, mi siedo comodamente sulla mia poltrona preferita e mi immergo nella lettura.
È ormai troppo tardi quando mi accorgo di non essere più nel mio accogliente soggiorno, ma in un piccolo vagone di un treno-merci in partenza, affollato da migliaia di persone nelle mie stesse condizioni, schiacciate le une contro le altre, che litigano e si lagnano per poter stare davanti all'unica piccola apertura presente.
Quando il treno parte, tutti iniziano ad urlare e piangere ed io, facendomi prendere dallo sconforto, seguo il loro esempio.
Durante il lungo e tormentato viaggio, facciamo qualche piccola sosta, grazie alla quale degli uomini, che parlano una lingua a me sconosciuta, ci spruzzano dell'acqua con l'ausilio di alcune canne.
Finalmente arriviamo a destinazione; mi posso riposare per quel viaggio snervante e posso capire il motivo per il quale mi trovo li. Ma le mie speranze svaniscono non appena una ragazza mi si avvicina, facendomi notare la scritta posta alle sommità di un immenso portone che nasconde chissà quale orribile sorpresa. È scritto in tedesco; non conosco quella lingua, ma mi basta chiederlo alla mia nuova amica che la traduce cosi: "Il lavoro rende liberi".
Incuriosita mi avvicino, ed il portone si spalanca mostrandomi cose terribili che non ho mai visto, neppure nei miei peggiori incubi: immense costruzioni grigie sparse in un vasto campo circondato da migliaia di uomini in divisa, muniti di fucile, pronti ad usarlo con fierezza contro chi avesse deciso di fuggire. Il tutto è annebbiato da uno spettrale fumo nero proveniente dal camino di una costruzione posta al centro del campo.
Mi mancano le forze e sono sul punto di svenire, ma devo riprendermi subito perché avverto uno strano rumore e qualcosa puntato alla fronte. Alzo gli occhi: uno di quegli uomini in divisa mi impartisce chissà quali ordini, a me incomprensibili, in lingua tedesca.
Mi alzo immediatamente, mettendomi in fila con la mia amica. Ci dividono e non la vedo più, solo dopo molto tempo capirò dove sia finita.
Mi trovo di nuovo sola, ma ormai avere un amico non è granché importante. Una donna con un camice bianco ordina a me e alle mie compagne di toglierci i vestiti e di consegnarglieli. La vergogna è molta, ma svanisce anche quella dato che siamo tutte nella stessa condizione. Fa un grande freddo e ci lasciano lo stesso nude con i piedi scalzi affondati nella neve a contorcerci e spingerci l'una contro l'altra, per riscaldarci. Poi ci fanno entrare in una stanza e lì mi accorgo di non essere l'unica ad avere una grande paura. Tutte abbiamo gli occhi spalancati e ci guardiamo intorno atterrite e smarrite, cercando qualche via d'uscita. Tutto ad un tratto, dal soffitto cominciano a cadere delle gocce d'acqua calda. Quello è l'unico e breve momento di sollievo.
Dopo la doccia ci portano in un'altra camerata, dove ci danno degli strani vestiti a righe bianche e nere che indossiamo subito. Nel frattempo un infermiere mi afferra il braccio e mi tatua un numero: è un'esperienza molto dolorosa. Poi mi tagliano i capelli, mi indicano una baracca che raggiungo insieme alla mie compagne e mi impossesso subito di una cuccetta che sono costretta a dividere con un'altra detenuta. Ormai è tardi e sono stremata, appoggio la testa al muro e mi addormento. È la fame a svegliarmi, quando è già mattina; subito dopo il mio risveglio, risuona nel campo uno strano rumore: è ora di alzarsi.
Fanno l'appello, chiamando i numeri tatuati sul braccio e non per nome; veniamo trattati come degli animali. Così inizia la prima giornata. A me viene affidato il lavoro in una fabbrica di stampi. È molto pesante e faticoso e la sera mi ritrovo senza forza, con i piedi pieni di piaghe e le mani tagliate.
Tutto va avanti in questo modo per molto, molto tempo tra urla di dolore e disperazione e tanti morti che abbandonano il loro posto sulla terra proprio davanti ai miei occhi. Non vengono uccisi solo dalle S.S. con un semplice colpo di fucile, ma anche nella camera a gas. Infatti l'impalpabile fumo nero che ricopre tutto il campo esce dalla cappa dell'imponente e terribile costruzione che fa tremare chiunque la guardi.
Ma nel '45 conosciamo la nostra salvezza: arrivano i Russi che ci ridanno la libertà.
"Libertà" è diventata una parola così dimenticata e cancellata dalla mente, annebbiata ed offuscata da tanto dolore e tanta crudeltà che, quando mi viene ricordato il suo significato, mi ritrovo più persa e terrorizzata di prima, perché non sono più in grado di intuirne il valore. È mia madre a destarmi da questo lungo ed estenuante incubo e mi accorgo di avere tra le mani il libro preso in prestito.
La prima reazione è quella di piangere: il mio è un pianto triste, silenzioso per le vicende terribili e sconvolgenti di cui sono stata partecipe e testimone inconsapevole.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010