Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
3ª edizione - (2000)

Le affinitą, il viaggio, la memoria

Da quel momento in poi la mia vita cambiò, se mai in precedenza avevo vissuto, e se ora vivevo veramente; l'aria che mi sfiorava il viso era talmente fredda che mi tagliava e ghiacciava la faccia; la pioggia disegnava sottili ruscelli sul mio corpo, che bagnato diveniva di un rosa sporco. Ero nudo e infreddolito.
Camminavo in mezzo a un prato di erba alta e verde che mi copriva sino al collo, erba sfamata dall'acqua e dalle mie lacrime; ero solo con me stesso, per la prima volta.
Il mio capo ruotava e ruotava, alla ricerca di qualcosa, l'atmosfera era cupa, il cielo buio, la terra su cui poggiavo i piedi aspra e umida. Cercavo sapendo di non poter trovare. Ma non mi sentivo solo, non lo ero: il campo infinito era la mia comunione; presi un po' di terra tra le mani, sfatte dalla pioggia e invecchiate dal freddo, annusai.
In quel momento l'odore della terra umida, del verde, bagnato e insaporito dalla pioggia, mi sembrò quello dell'incenso in una chiesa di campagna, quando si diffonde libero e sfiora i muri di mattone impregnandoli, cosicché con la pioggia l'odore del mattone si mescola a quello dell'incenso che si mescola a quello della terra e delle piante con quello dei camini e della legna bruciata, in un'armonia solo apparente, che cela guerre tra fragranze opposte e crea miscele dai profumi celesti.
Tutto, in un pugno di terra. Affogai in essa gli occhi ed essa mi fissò morta apparentemente ma viva dei miei ricordi e di quei paesaggi che coloravano l'orizzonte ora bagnato dal grigio della pioggia, ora scurito dalle scure nubi, ora nero, di non so neanch'io cosa...
Le narici e le labbra erano piene di quella sostanza, gonfiate sino a esplodere ma ancora vogliose di annusare e mangiare. Talmente ricche da deformarmi i lineamenti, solo ora le labbra e le narici annusavano e mangiavano veramente, e le labbra annusavano e le narici mangiavano da quella mensa di sapori naturali e passati e di passati e naturali odori.
Capii che quella terra era la perla della mia anima, erano idee e ricordi e sensazioni, erano state me, erano me, e sarebbero state me. Mi chinai per ungermi di quella terra ed essere per la prima volta me stesso.
Là, sotto le alte piante, a contatto con la terra, non avvertivo freddo e la pioggia che sbatteva sul capo raso faceva di me il più abile dei musicisti, tanto musicale era lo sbattere delle gocce filtrate dalle piante sulla testa, ritmato e soave ora quanto monotono e martellante prima.
Ero felice perché vivo per la prima volta. Nudo davanti alla verità della mia anima, e la verità della mia anima libera di mostrarsi davanti a me.
Piangevo, e dagli occhi non cadevano lacrime ma pioggia, perché la terra piangeva di pioggia.
Ciò che mostravo di provare era ciò che provavo veramente. Il cielo ancora nero filtrava luci sul mio viso, gli occhi abituati al buio si chiudevano istintivamente: non ero ancora abituato a vedere me stesso, ma finalmente ascoltavo invece che sentire ed osservavo, invece di vedere.
Non sapevo che pensare, non sapevo dov'ero, non sapevo quando e cosa fare, adesso.
Ma mi accorsi che la situazione non era poi così diversa dal solito.
Forse che in vita la mia indole non voleva mostrarsi vera al mondo, impedita dalle apparenze della realtà mortale, coperta appena voleva mostrarsi nuda, sporcata appena lei stessa si librava in volo leggera e pulita, per ricadere nelle falsità dell'oblio?
Mi comportavo come nella realtà... anche lì, in un angolo della mia mente, bagnato sporco e infreddolito, avevo paura di vedermi: che incantevole visione quello spiraglio di luce, che tagliava cielo e terra e faceva trasparenti gocce di pioggia sporche, e che scaldava il mio cuore morto che batteva rapido per inerzia e si infiammava, ora, finalmente, di un fuoco che difficilmente si sarebbe spento!
Il campo di vita morta su cui inutile strisciavo, diveniva campo di morta vita.
La pioggia nutriva la terra di ricordi, di sensazioni e di vita che io non ero in grado di cogliere. Io uccidevo quella terra viva, e così uccidevo me stesso.
Il contatto con la terra, poi, i profumi e i sapori, la luce, mi fecero capire. Io diedi vita per un brevissimo tempo a quella natura triste e morta, e fui io per primo ad essere vivo.
Mi chiesi se per assurdo morendo avrei sentito quell'odore acre che ora avvertivo forte nel naso e sulla pelle, se mi sarei saziato di quei sapori grevi che la mia bocca masticava tra la pioggia e la terra, mentre camminavo, verso me stesso, un viaggio infinito.
Se avrei scorto non uno spiraglio di luce, ma tutta una pianura illuminata, piante bagnate da rugiada e sole sulla pelle calda e abbronzata.
Se morendo avrei vissuto la mia vita, e non quella del mio doppio, finto lui e finta quella vita che io in lui avevo creduto di vivere tra altri finti allo stesso modo, ma innocenti perché inconsapevoli.
Forse stavo sognando, o forse morendo nel sonno, la luce aumentava sempre più e il mio corpo fradicio e colorato di terra diveniva asciutto. Mi alzai tra le alte piante sazie d'acqua lasciando cadere la terra che ancora stringevo nelle mani, e toccai i piccoli germogli che su alcune di esse maturavano.
Conoscevo alcuni dei segreti della vita e della morte.
Sapevo che vivere come avevo appreso sarebbe stato impossibile, ma non volevo morire perché la morte avrebbe potuto tradire le attese.
La memoria di questo viaggio in me stesso, se mi fossi svegliato, sarebbe stata la mia condanna, terribile pena la vita... quella memoria dei ricordi e delle sensazioni che prima mi aveva svelato l'essenza, quella memoria di cui la terra si era fatta carico, si sgretolava già asciutta davanti ai miei occhi mentre cadeva dalle mani arsa dal sole, lei incapace di consigliarmi ed io inetto nel decifrare i suoi ultimi respiri.
Non volevo svegliarmi nella falsità né morire nel dubbio.
Ma ora, lì, con i piedi appena umidi sulla terra, con la faccia al sole che prepotente abbracciava le ultime nuvole, con il corpo tutto, circondato da piante in fiore che mi sfioravano le braccia e il petto e la schiena, credevo che avrei potuto rimandare la scelta, ancora un po'... Un sonno infinito era d'altra parte indispensabile per completare un viaggio che pareva senza fine, per conoscere e scegliere consapevolmente.
Dormii molto a lungo, e non ricordo il giorno in cui mi svegliai...
Avevo già scelto ma non volevo rendermene conto. Dormii il sonno della morte, e fu la scelta giusta.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010