Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
3ª edizione - (2000)

¿Quién sabe?

Anche la tristezza ha una barriera, un confine. Oltre quel limite non ci sono che due possibilità: il rifugio nella follia della depressione, o la fuga.
Lui aveva scelto la seconda.
Si chiamava Luca, Luca Martino, amministratore delegato ormai da più di sei anni della succursale di Milano di un'importante fabbrica di birra messicana, sposato infelicemente con una donna che l'aveva lasciato pochi giorni prima, senza figli, ma con un ricco conto in banca. Già da un po' di tempo fantasticava di andarsene dall'Italia, ma più per scherzo che per convinzione. Passavano i giorni però, e quello scherzo a poco a poco si tramutava in una necessità sempre più impellente, quasi vitale. Così, in una freddissima giornata di febbraio, dopo aver scritto la lettera di dimissioni, aveva ritirato la liquidazione e aveva deciso di andarsene.

"Dove?" si chiese sfogliando il nuovissimo atlante comprato quella stessa mattina. Il suo passato da giovane anarchico, prima di finire ingabbiato nell'amministrazione della fabbrica, gli aveva fatto pensare alla Russia, patria di Bakunin, ma ormai da tempo aveva abbracciato la filosofia di Clemenceau - "Chi a vent'anni non è anarchico, non potrà dire d'essere stato giovane. Chi lo è ancora a trenta è un imbecille" - quindi cambiò pagina e continuò a sfogliare.
Europa, Africa, Sudamerica, Centroamerica, Messico. Rise, pensando alle sue birre messicane. Poi divenne di colpo serio, chiuse l'atlante, si accese una sigaretta e uscì.

E così, a trentasei anni, si era ritrovato all'aeroporto con un biglietto per il Messico e una valigia, pronto a cambiare tutto, finalmente non solo con un passato alle spalle, ma anche con un futuro davanti. Li amava, gli aeroporti; terra di tutti e di nessuno, pistoni capaci di spingere migliaia di persone ogni giorno, fuoco che brucia nelle viscere di vagabondi e fuggitivi. Vagabondi e fuggitivi coi soldi, si intende. E lui di certo non ne era sprovvisto. Ma quello che più di tutto sognava erano i treni e l'autostop - rigurgito di giovanili letture - che si riprometteva di avere, non appena in Messico, come inseparabili compagni di vita.
E aveva voglia di correre e urlare a tutti la sua fuga e la sua nuova vita, di ubriacarsi dell'euforia che tornava dopo anni a fluire spumeggiante nel suo cervello ormai secco e crepato, di ingoiare aria e parole, di nutrirsi solo della strada, calpestando la memoria. Certo può far paura ricominciare tutto da capo, ma lui non aveva nulla da perdere. La vita fino ad allora era riuscita soltanto a far marcire il suo cervello e le sue idee, e ogni giorno lo stantuffo del lavoro gli iniettava in vena sempre più veleno, mentre le parole dei suoi amici le inghiottiva amarissime una ad una, come si inghiotte la scoperta che tutto quello che abbiamo attorno è falso e inutile. Così la memoria di quello che era stato fino a pochi giorni prima lo braccava stringendolo ogni giorno di più nel suo abbraccio mortale e melmoso, mentre lui cercava disperato di correre sempre più veloce con la speranza di riuscire a sfuggire. E intanto nella sua testa le nuvole del passato si scontravano tremende, sciogliendosi, facendo colare via tutto il veleno che avevano dentro, lasciando spazio per altra vita. O per altro veleno.

Sull'aereo si mise a pensare, e capì in modo ancora più nitido come avesse gettato via la sua vita fino ad allora. "Vivere intensamente compensa ogni sforzo e quasi ogni sacrificio. Vivere a metà è sempre stata la funzione e il castigo dei mediocri" dice Rolo Diez. Finalmente era riuscito a comprendere appieno quella frase, e aveva deciso di adottarla a modello della sua vita futura. Assentì silenziosamente con la testa, si tirò fin sotto il mento la coperta offertagli da una hostess, e si addormentò.

Sotto di lui Città del Messico, pulsante, viva, immenso magma di milioni di persone in eterno movimento, patria di rivoluzioni o di sconfitte, di sognatori o di cinici disillusi, cuore palpitante e allo stesso tempo ferita sempre aperta, come solo Città del Messico sa essere, con i suoi 2300 metri di altitudine e l'aria che puzza di gas di scarico, fritto e frutta marcia.
L'ultima luce rossastra del giorno intanto grondava sanguigna attraverso le nubi, bagnando con le sue ciglia luminose l'immensa metropoli, mentre grappoli di neon e lampioni si accendevano qua e là fra case, grattacieli e baracche. Lui era là, aggrappato al finestrino dell'aereo, con gli occhi spalancati per bere avidi gli ultimi raggi del sole, e per trarre da essi l'energia per una nuova esistenza.
Ma purtroppo non era solo lì in mezzo alle nubi. Il suo vicino, un cinquantenne grasso e stempiato, che per tutto il viaggio non aveva fatto altro che rantolare nel tentativo disperato di incamerare aria e immetterla nei polmoni compressi dall'adipe, iniziava a stancarsi di lui e dei suoi continui movimenti e saltelli, quasi fosse un bambino al suo primo volo, e aveva aggiunto agli incessanti rantoli sbuffi rumorosi e colpetti di tosse, che Luca fece del resto finta di ignorare.
E così dopo ore di volo erano atterrati.

A Città del Messico ci restò per alcuni mesi, ma poi tutt'a un tratto s'accorse che quelle strade e case che erano la scenografia della sua nuova vita non eran sue e lui non apparteneva loro Così, un giorno in cui il cielo era particolarmente azzurro, dipinto solo dalle bianche striature di alcuni aerei lontani e dal nero danzare di piccoli uccelli, aveva deciso di partire di nuovo.

La stazione della Central Camionera era affollata come al solito, piena di donne, uomini e bambini che tornavano a casa dopo un altro giorno di lavoro, ronzante di chiacchiere, pianti di bimbi, urla e bestemmie degli autisti. Luca era lì, seduto su una panca metallica calda del sole del giorno ormai morto, con in bocca l'ennesima sigaretta e nella testa l'ennesimo dubbio: che ci faccio io qui?
Aveva fatto davvero bene a mollare tutto? Sarebbe mai riuscito a cancellare la dolorosa memoria dello "ieri"? Gli si avvicinò una vecchietta, che tentò di spiegargli in una specie di spagnolo tojolabal incomprensibile che aveva bisogno di soldi per un'operazione agli occhi; lui le sorrise, mise le mani in tasca e le diede quasi tutto quel poco che contenevano. La vecchia lo benedisse. Sul volto di Luca il sorriso si inclinò a poco a poco, come un veliero in una tempesta, e si inabissò del tutto in una smorfia sinistra. Stava per piangere. Poi si scosse, tutta la tristezza che aveva la tramutò in rabbia, e decise di andare, di sfogare l'odio contro chi ne vomitava sempre contro tutti, lo avrebbe lasciato sgorgare libero come lava, avrebbe distrutto ogni diga, ogni ostacolo al suo odio enorme... Era balzato in piedi, si risedette. Che cosa voleva fare, combattere? E contro chi, contro il governo che massacrava gli indios, contro i gringos che avevano ridotto quel paese a una immensa pattumiera, contro i paramilitari che sgozzavano e torturavano impunemente decine e decine di campesinos? E come? Passò un signore che vendeva giornali, con in testa un vecchio cappello bisunto e un palicate rosso al collo. Ne comprò uno, dopo aver scambiato quattro chiacchiere con il suo spagnolo accademico che aveva imparato in azienda e che lo faceva subito riconoscere come un gringo. Il giornale parlava soprattutto di cronaca nera, compagna inseparabile di ogni abitante di quella immensa metropoli così come per lui era la tristezza, e un poco di politica. Un autobus si era ribaltato nel centro della città, otto morti; una ragazza era stata trovata sgozzata nel bagno di un cinema; denunciato un medico che aveva fatto morire per sbaglio due pazienti, il medico attualmente si trovava in Uruguay, dove era fuggito subito dopo la morte del secondo; in Chiapas continuavano gli scontri fra gli Zapatisti e l'esercito...
Un lampo fuggì veloce attraverso gli occhi e si addormentò come brace nel suo cervello. Spense la sigaretta, ormai sapeva dove andare. Salì sull'autobus Città del Messico San Cristobal de las Casas, il Chiapas lo stava aspettando.

Non so poi dove sia finito, qualcuno dice che ce l'abbia fatta, che sia arrivato e che sia diventato anche lui guerrigliero; altri che si sia sposato con la padrona di un ristorante; che l'abbia ucciso l'esercito; che sia diventato un narcotrafficante, un contadino, un attore, un insegnante, un illusionista, un saltimbanco...
¿Quién sabe?
Io, il suo vecchio "Io", sono rimasto lì, abbandonato in quella stazione, ombra leggera che sfiora il viso ridente dei bimbi che stanno per partire, bagliore fugace riflesso nei fari di qualche autobus, spuma chiara nelle birre degli autisti. Adesso ha un altro "Io" che lo segue, che condivide con lui gli amori ,la gioia, la tristezza, che vive, piange, muore con lui.
Non so che fine abbia fatto. Io, un "Io" ormai morto, sono rimasto qui, dove lui mi ha abbandonato, salutato di tanto in tanto dal rombo dei motori e dall'occhieggiare luminoso dei fari.


»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni

Copyright © 1999 - Comitato per Sofia - Tutti i diritti riservati.
Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010