Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
3ª edizione - (2000)

La mia casa è lontano da qui

"La vita è ciò che facciamo di essa.
I viaggi sono i viaggiatori.
Ciò che vediamo non è ciò che vediamo,
ma ciò che siamo."

(F. Pessoa)

Ho fatto un viaggio, due anni fa. Non è stato il mio primo viaggio all'estero e nemmeno l'ultimo. Però è stato il viaggio più importante della mia vita.
Si può dire che da quel viaggio io non abbia ancora fatto ritorno, perché anche se sono tornata fisicamente, una parte di me - l'anima, credo - è rimasta là.

Una persona non appartiene alla terra dove è nata. Ognuno appartiene ad un diverso luogo, dove forse non è mai stato e non arriverò mai.
Pochi sono i fortunati che riescono a conoscere la propria terra, meno ancora quelli che vi nascono. La maggior parte di noi ne conosce solo una piccola parte, intravista chissà dove, magari proprio in un viaggio. Quest'ultimo è il mio caso.
Ho intravisto nel corso di una brevissima settimana pochi sprazzi del mio luogo d'origine, l'origine di ogni mio pensiero, movimento, azione.

Molti turisti, dopo pochi giorni passati in Africa, credono di conoscerla.
Che ingenui! Non basterebbe una vita per conoscerne solo una minima parte.
Io non la conosco, non oso sostenere qualcosa del genere, però nel mio piccolo sono riuscita ad intuirne l'essenza.
Proprio per colpa di questa mia "sbirciata" sono quello che sono ora: malata, malata di quel male incurabile che avevano Karen Blixen, la Gallman, e un gran numero di altre persone che, come me, nessuno conosce e conoscerà mai.
Si chiama in molti modi, nostalgia, "mal d'Africa", e chissà che altro; resta il fatto che è una vera e propria malattia, inguaribile e inarrestabile.
Basta una settimana, una sola, minuscola settimana, e chi già dalla nascita covava il virus nella propria mente, si ritrova nel giro di un secondo così, solo, devastato, impossessato e perseguitato da voci e immagini insistenti.
Il tempo può placarne la forza, ma può anche succedere che il male, invece di diminuire, si accresca fomentato dalla lontananza.

Sono stata in Kenya dal 29 dicembre del 1997 al 6 gennaio dell'anno seguente.
Ho fatto quello che fanno migliaia, milioni di turisti ogni anno, qualche visita qua e là, ma è bastato per perdermi.
Vi sembrerà strano che una ragazza insignificante, poco più di una bambina, possa provare qualcosa del genere; ma succede, succede anche se hai quindici anni.

I Masai chiamavano l'altopiano dove sorge Nairobi "Nakusontelon", che significa "fonte di ogni bellezza". Non ne conosco il motivo, infatti oggi Nairobi è una città grigia, disordinata, una città di vecchi palazzi scrostati, dove in una stanza vive un'intera famiglia. Forse un tempo era un posto molto bello, ma oggi non rimane che una pallida ombra dello splendore passato.

C'è un fiume in Kenya che si chiama Mara: è uguale a tanti altri fiumi, torbido e pieno di anse, ma per me non è un fiume qualsiasi. Il Mara è il mio fiume.
Ci sono tanti fiumi nel mondo, ma io ho fatto un viaggio così lungo solo per il Mara, per un fiumiciattolo così piccolo che a volte non è nemmeno segnato sulle cartine. Eppure quel fiume ha un significato speciale per me.
Spesso sono le cose insignificanti che ci stanno più a cuore, ma non ne conosco il motivo. Forse il fatto che per altri non contano nulla ce le fa sentire più vicine, più "intime".

Io conservo i miei ricordi gelosamente, ed è strano che ora sia qui a scrivere di cose così personali. Ho bisogno di gente che conosca la mia situazione, che come me ha dei ricordi di qualche posto - lontano o vicino. Non credo di essere l'unica che si è innamorata di un luogo straniero. Non sono l'unica ad aver viaggiato.
Ogni posto che visitiamo lascia delle tracce nella memoria, a volte quasi invisibili, altre volte indelebili. Perché ogni luogo ha un anima, e noi entriamo in contatto con essa. Ognuno ne conserva una parte, e disperde il resto.
Ho viaggiato poco rispetto ad altri, ma di quel poco che ho visto qualcosa ricordo, avvenimenti minimi, frasi, un colore, una casa...

Ho paura di perdere i ricordi che mi rimangono dell'Africa, ho paura che si perdano in qualche recesso della mente, come è successo ad altri momenti della mia vita. E se già mi è così facile dimenticare ora che ho quindici anni, cosa farò quando ne avrò quaranta, cinquanta, sessanta?
Ma se mi fermo a riflettere anche solo un minuto mi rendo conto che non mi sarà possibile dimenticare l'Africa (il mio piccolo pezzettino d'Africa), perché è entrato a far parte di me come un organo, come un arto o un fascio di muscoli.
Non posso separarmi dai miei ricordi, perché io sono quei ricordi. Non posso dividermi da me stessa.

Mi sono commossa nel vedere l'alba in Africa, cosa che qui non mi succede molto spesso.
Ogni giorno era troppo importante per perderne l'inizio. Era un giorno che non si sarebbe ripetuto, un'alba che non avrei rivisto.
Eppure no, io mi rifiuto di pensare che quella era l'ultima - l'unica - alba che vedevo laggiù. Insomma, cosa sarei io senza la mia terra?
So di sbagliare a dire "mia'; perché non è lei ad appartenermi, ma sono io ad appartenere a lei.

Voglio tornare a casa. Lo ripeto spesso - a mente, a parole o per iscritto - ma non sembra una frase con un senso compiuto.
La gente non può capire cosa mi manca a restare qui, loro non sono malati come lo sono io.
Non posso prendere un aereo e tornare, da sola non posso farlo, e non posso contare su nessuno. Dovrò aspettare ancora anni prima di poter fare di testa mia e tornare a casa. A casa, sì, perché dove sono ora non è la mia casa.
La mia casa si chiama Africa.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010